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30 gennaio 2017

“Il Papa convochi tutti i Patriarchi per parlare del Medio Oriente”

By La Stampa - Vatican Insider
Gianni Valente


Una riunione dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese d’Oriente, convocata da Papa Francesco «a Roma o dove vuole lui» per «discutere della situazione del Medio Oriente, pregare insieme, cercare soluzioni ai problemi». È la proposta che Mar Gewargis III, Patriarca della Chiesa assira d’Oriente, ha consegnato al Vescovo di Roma, quando è venuto a trovarlo in Vaticano. E che ora rilancia, quando sono appena trascorsi giorni in cui in tutto il mondo i cristiani hanno invocato insieme, nella preghiera, il dono dell’unità. 
Santità, Lei già nella sua visita a Roma ha avuto occasione di pregare insieme a Papa Francesco per l’unità dei cristiani…
Quando ci siamo incontrati, a dicembre, non ci siamo solo abbracciati e non abbiamo solo parlato. Abbiamo anche pregato insieme, nella cappella Redemptoris Mater. Quando la nostra gente vede i capi delle Chiese che pregano insieme, vede che sono uomini di Dio, e non burocrati. Questo fa crescere la speranza. Per questo ho proposto al Papa di convocare una riunione dei Patriarchi e dei capi delle Chiese d’Oriente, le Chiese di tradizione apostolica, per affrontare insieme la situazione del Medio Oriente. Gli sviluppi più recenti, come quello che sta succedendo in Siria e Iraq, rendono ancora più forte questa esigenza di trovarci insieme, da fratelli, per pregare e riflettere insieme.
E dove immagina che potrebbe avvenire, questo incontro?
A Roma, o dove vuole lui. È importante che la proposta arrivi da lui. E oltre al Medio Oriente potremmo anche guardare insieme ai problemi globali del mondo, che condizionano le vite dei nostri popoli e delle nostre nazioni. Spero che Papa Francesco prenda in considerazione questa proposta. Il tempo che stiamo vivendo ci chiama a dare anche questo segno di unità. 
Il suo predecessore Mar Dinkha ha vissuto tutto il suo mandato patriarcale negli Usa, presso Chicago. Lei ha riportato la Sede patriarcale in Medio Oriente, a Erbil, in un tempo in cui tanti cristiani fuggono da quelle terre. 
Durante il patriarcato di Mar Dinkha tanti problemi hanno impedito di tornare. Ma storicamente, la Sede patriarcale della nostra Chiesa è in quella regione. Quelle sono le terre in cui la nostra Chiesa ha avuto inizio. Siamo tornati a Erbil per un impegno di testimonianza, e anche per condividere e far crescere la speranza in un futuro migliore per chi vive in quelle terre. 
La maggior parte dei vostri fedeli vivono lontano dal Medio Oriente. Da quelle terre tanti cristiani continuano a emigrare. Non le sembrano inutili i tanti appelli a “rimanere” fatti da molti Capi delle Chiese?
Per me è un dolore vedere che i cristiani lasciano il Paese. Ma la situazione non appare luminosa. Ognuno deve fare le sue scelte seguendo la propria coscienza, soprattutto quando ha la responsabilità del futuro dei propri figli. Nessuno può essere costretto rimanere, qando teme per la vita dei suoi figli, e quando l’oggi appare peggio di ieri. L’esodo finirà solo se tornerà la sicurezza di poter vivere una vita tranquilla. 
E adesso, mentre è ancora in corso la battaglia su Mosul, cosa può favorire il ritorno della sicurezza?
Bisogna che il governo centrale e quello regionale del Kurdistan iracheno si uniscano in un piano comune, per liberare il Paese dai terroristi. E poi i Paesi vicini all’Iraq e alla Siria devono fare la loro parte. Ci son Paesi che fino ad ora hanno aiutato i gruppi terroristi. Poi, anche la comunità internazionale, attraverso l’intervento diretto dell’Onu, deve assumersi l’impegno di garantire la pace. Poi verrà il tempo di far tornare gli sfollati interni alle proprie case, di ricostruire le infrastrutture distrutte dai conflitti. E solo allora si potrà verificare se quelli che sono emigrati all’estero sono disposti a ritornare. 
Lei teme contese o conflitti tra il governo di Baghdad e quello della Regione autonoma del Kurdistan iracheno?
Adesso tutti sono uniti nella lotta a Daesh (lo Stato Islamico, ndr) e nella liberazione di Mosul. Occorre che i due governi si parlino e troveranno il modo di comprendersi e la strada da prendere. Ma gli altri, le forze esterne, sia regionali che globali, non devono interferire. Se gli altri non interferiscono dall’esterno, le soluzioni si trovano. 
Molti politici cristiani locali, anche assiri, ricominciano a parlare di una possibile autonomia amministrativa per la Piana di Ninive. Una specie di “focolare” cristiano. Sono ipotesi realiste o sogni passati che ritornano?
Certo, non è un’idea nuova. Gli assiri sono il popolo autoctono di quelle terre. I cristiani assiri erano concentrati nella Piana di Ninive lungo tante generazioni, prima che le convulsioni della storia li costringessero a emigrare nelle grandi città, o in altre terre. C’è un desiderio naturale del nostro popolo di vivere insieme, anche con i caldei ed i siriaci, in un’area dove si possano far crescere i propri figli trasmettendo loro la lingua e le proprie millenarie tradizioni spirituali. Anche a Baghdad gli assiri erano concentrati nel quartiere di Dora. E in fondo, anche a New York c’è ChinaTown, e c’è ancora Little Italy…
L’eventuale autonomia della Piana di Ninive con quale autorità politica andrebbe discussa? Si è parlato di un referendum per chiedere agli abitanti della Provincia di Ninive di aderire al Kurdistan “indipendente”… 
Al momento presente, la Piana di Ninive è sotto la giurisdizione del governo centrale di Baghdad. Ufficialmente rimane tutto nel quadro del governo iracheno. A quel governo sono già state da tempo presentate le proposte di autonomia per la Piana di Ninive, da parte di politici cristiani. I rappresentanti del governo hanno fatto sapere che avrebbero preso in considerazione la richiesta. Non bisogna dimenticare che la popolazione della Piana ha il diritto di determinare il proprio futuro.
Ci sono anche politici e organizzazioni occidentali – ad esempio in USA – che si mobilitano a favore dell’autonomia della Piana di Ninive. Come giudica queste iniziative? 
Noi sosteniamo questa richiesta come cittadini iracheni. Se poi da fuori arrivano segnali di sostegno e di solidarietà, certo accettiamo l’aiuto. Quella è sempre stata la nostra terra, la terra dei nostri martiri. Sappiamo che la futura sistemazione politica della Piana di Ninive è una questione interna, ma apprezziamo anche l’aiuto di chi da fuori vuole collaborare con noi a persuadere il governo iracheno. Attraverso il dialogo e l’esposizione delle nostre ragioni, ovviamente. E senza alcun tipo di pressione ingiustificata. 
E l’autonomia riguarderebbe anche la gestione delle forze di sicurezza e dei corpi di polizia? 
Già adesso gruppi di soldati assiri e siriaci si sono organizzati per la protezione e la sicurezza dei villaggi liberati da Daesh. Hanno partecipato anche a qualche azione militare. Ma sono forze che si sono formate con il consenso del governo, e si muovono in stretto coordinamento con l’esercito unitario nazionale. Se la situazione migliorerà, se tornerà la sicurezza, non credo che ci sarà ancora bisogno di mantenere in piedi questi gruppi di auto-protezione. Non siamo a favore di milizie “confessionali”. 
Se Mosul verrà riconquistata dall’esercito governativo, dove andranno i jihadisti di Daesh? E sarà possibile “riassorbire” la parte di popolazione che li ha sostenuti?
Non si può dire. Quelli che li seguivano per interesse, per soldi o per paura, potranno essere reintegrati. Ma i più fanatici tra loro sono persone che non accettano alcuna integrazione. Andranno avanti fino alla fine sulla strada della loro ideologia, che li spinge anche al suicidio. 
Si è appena insediato in nuovo Presidente USA Donald Trump. Quale sarà con lui il futuro del Medio Oriente? E Lei come giudica la sua linea non conflittuale con la Russia?
Noi abbiamo la stessa speranza che abbiamo a ogni elezione presidenziale negli USA. Che il nuovo Presidente, chiunque egli sia, contribuisca a far crescere la sicurezza in Medio Oriente, per quello che gli compete, collaborando con i legittimi governi della regione. 
L’antica Chiesa d’Oriente non ha mai avuto conflitti teologici e dogmatici diretti con il vescovo di Roma. Sareste disposti a riconoscere la Sede di Roma come “Prima Sede”?
La Chiesa assira ha iniziato il dialogo teologico ufficiale con la Chiesa cattolica nel 1984. Così è iniziato un cammino fraterno tra due Chiese sorelle. Vogliamo dare innanzitutto gioia e speranza ai battezzati, che vedono come i Capi delle nostre Chiese sono fratelli nel Signore. Per studiare la questione del primato, occorrerà guardare a come quella questione era trattata e vissuta nei Concili, innanzitutto prima di quello di Calcedonia, ma anche nel quadro dell’ecclesiologia della Chiesa in Oriente ed in Occidente nel primo millennio. Conviene sempre guardare ai primi secoli, prima che avvenissero le divisioni. 
Ora, dopo la dichiarazione cristologica comune del 1994 (CCD), che ha confessato la fede in Cristo condivisa tra cattolici e assiri, di cosa si sta occupando il dialogo teologico tra le due Chiese? 
Stiamo trattando il tema dei sacramenti e della vita sacramentale della chiesa. La firma di un documento comune su questo punto potrebbe arrivare entro il 2017. 
Si tratterà anche il tema della communicatio in sacris, o quello della ospitalità eucaristica tra le due Chiese? 
Noi già dal 2001 abbiamo autorizzato esperienze di ospitalità eucaristica con la Chiesa caldea, in situazioni pastorali che lo richiedono. Le nostre comunità sparse in Occidente avrebbero certo dei vantaggi se tale prassi fosse più diffusa. Nel documento che sottoscriveremo non si accenna alla piena communicatio in sacris con la Chiesa di Roma, ma si attesta il riconoscimento reciproco della validità dei sacramenti celebrati e amministrati nelle nostre due Chiese. 
La teologia e la spiritualità della Chiesa assira sottolineano con forza la natura umana di Cristo. Questa prospettiva spirituale non potrebbe essere maggiormente valorizzata come una via feconda per l'annuncio cristiano nel tempo che stiamo vivendo? 
Le Sacre Scritture mettono l'accento sull'umanità di Cristo soprattutto nei Vangeli sinottici, e nel dialogo teologico con i cattolici stiamo cercando di valorizzare anche questa sensibilità. Per non dimenticare mai che arriviamo a fare esperienza della natura divina di Cristo attraverso i gesti concreti della sua umanità, e che per questa via siamo chiamati a partecipare della natura divina, come dice la seconda Lettera dell’apostolo Pietro.