Daniela Lombardi
Per difendere la propria famiglia, la propria casa, la propria terra, hanno deciso che non è più tempo di “porgere l’altra guancia”. Ci sono cristiani,
 in Iraq, che per riappropriarsi delle loro città o semplicemente 
sorvegliarle, tutelare i propri cari e i propri beni, conservare la fede
 senza doversi convertire all’Islam estremista imposto dal Daesh, 
imbracciano il fucile e combattono.
A Manila, come ad Erbil, si presentano a chiedere un addestramento 
qualificato, come quello fornito dai nostri militari italiani che 
insegnano le nozioni teoriche e pratiche più importanti ai Peshmerga 
curdi e alla branca della polizia militarizzata della quale molti 
cristiani fanno parte, gli Zeravani.
Accanto ai “colleghi” curdi, che combattono l’Isis per inseguire un 
sogno di futura indipendenza e di riconoscimento delle loro terre, si 
gettano nel fango durante la simulazione di un’esplosione, imparano a 
riconoscere gli ordigni improvvisati, ad usare al meglio le armi.
“Qui ad Erbil abbiamo tanti cristiani che entrano tra gli Zeravani e,
 occasionalmente, li addestriamo anche a Manila. Sono molto motivati, 
hanno troppo da perdere e non intendono arrendersi”, spiega uno dei 
militari italiani impegnati nella missione “Inherent resolve”, che in 
Iraq fornisce il training ai Peshmerga per rendere la loro battaglia 
contro l’esercito delle “bandiere nere” sempre più efficace.
Molti cristiani hanno già pagato il loro tributo di sangue come 
combattenti, lasciando dietro di sé vedove e orfani, ma nella 
convinzione di dar loro un futuro migliore. E, comunque, preferendo 
morire in battaglia piuttosto che lasciandosi martirizzare senza battere
 ciglio o sentirsi costretti a pronunciare la formula di adesione 
all’Islam per non essere uccisi. Si dichiarano sicuri che se a difendere
 la cristianità non pensano i cristiani stessi, non ci penserà nessuno.
“Non ci fidiamo più di nessuna delle parti in campo. Nella guerra contro
 il Daesh tutti tutelano i propri interessi. Il governo i suoi. Sciiti e
 sunniti sono in contrapposizione anche quando fingono di abbracciare la
 stessa causa contro l’Isis, i curdi sperano che, una volta cacciate le 
bandiere nere, potranno richiedere terre e indipendenza in cambio del 
lavoro fatto. Noi cristiani, che siamo una netta minoranza e che 
vogliamo vivere solo in pace la nostra fede, non interessiamo. La Chiesa
 ci aiuta come può, ma certo non ha lo strumento della lotta armata da 
offrirci”, dice senza mezzi termini un ragazzo la cui croce, tenuta al 
collo con orgoglio, brilla nel sole del primo pomeriggio. Con la forza e
 la tenacia dei combattenti hanno deciso di opporsi allo scoraggiamento 
che ha colto molti dei loro amici e parenti, rassegnati a vivere nei 
campi profughi, nella consapevolezza che tornare alla vita pre-Isis sarà
 estremamente complicato e, in alcuni casi, impossibile. 
“L’ideologia 
dei terroristi resisterà a lungo, anche quando li cacceranno dalle 
nostre città. Ma noi non ci arrendiamo, non ci faremo togliere tutto 
senza muovere un dito. Può sembrare una contraddizione rispetto a quanto
 insegna il Vangelo, ma con le armi proteggiamo anche la nostra fede, la
 libertà di professarla senza che nessuno possa impedircelo. Contro 
l’odio cieco del Daesh per tutto ciò che siamo e per i nostri simboli, 
del resto, non sappiamo più cosa fare. La preghiera non basta. 
Continuiamo ad usare anche quella, ma vogliamo impegnarci in prima 
persona, portando sempre con  noi la croce che ci rappresenta e morendo indossandola”, dice uno dei 
ragazzi pronti all’addestramento. Una linea di pensiero diversa da 
quella “tradizionale” , ma che rivela tutta la sua importanza nel 
contesto iracheno, nel quale i cristiani si sentono sempre più isolati. 
 Un ambiente descritto alla perfezione dal parroco di Ankawa, fra 
Ammanoel Hloo. 
“La situazione dei cristiani in Iraq è disastrosa su 
tutti i piani. Politico, economico,sociale. L’isis nei prossimi mesi 
probabilmente verrà sconfitto dal punto di vista militare, o almeno lo 
speriamo. Ma l’ideologia che lo alimenta non morirà facilmente. La 
società resterà in pericolo e i cristiani più di tutti. La maggior parte
 dei cristiani rifiuta l’idea di rimanere qui e tenta di fuggire 
all’estero. C’è troppa paura di tornare a vivere ciò che si sta già 
vivendo. Le forze politiche attuali non sanno più guidare questo paese, i
 servizi sono inefficienti per la corruzione dilagante, i tre quarti 
della popolazione vivono in povertà. L’Iraq è un campo di contraddizioni
 e di battaglie tra tanti paesi. Turchia, Iran, Paesi del Golfo. In 
tutto ciò è logico che ognuno cerchi di pensare a se stesso e i 
cristiani sono una delle parti più deboli”.  
E’ per questo, dunque, che 
non può sorprendere se qualcuno tra loro decide di prepararsi nel 
migliore dei modi a difendersi anche con le armi.