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30 novembre 2016

Qaraqosh, la vergogna del Daesh e di chi l’ha creato

By Città Nuova
Michele Zanzucchi

Abuna Georges. Vado a Qaraqosh con abuna Georges, prete siro-cattolico, e i volontari della sua Chiesa, quasi tutti sfollati da Qaraqosh nel quartiere cristiano di Erbil, Ankawa. Vogliono documentare sistematicamente gli scempi compiuti dal Daesh, per chiedere riparazione ma anche per documentare un «tentativo di genocidio», come qualcuno di loro sostiene. Armati di macchine fotografiche e di piantine create da loro stessi (da queste parti non ci sono rilevazioni attendibili), visitano tutte le seimila abitazioni della città cristiana a 50 km da Erbil e 25 da Mosul. Il Daesh se n’è andato da poche settimane, dopo più di due anni d’occupazione.
 
Eserciti. Appena lasciata Erbil cominciano i posti di blocco. Ne conterò alla fine più di dieci, più o meno significativi, più o meno complicati da superare. Incontro tre eserciti-milizie: quello curdo, quello iracheno e quello cristiano. Per il momento uniti nella necessità di liberare il territorio dal Daesh. Il futuro non è così semplice come potrebbe sembrare: cosa succederà quando si dovrà tornare nelle case? I cristiani saranno protetti? Le loro attività potranno svolgersi regolarmente? Saranno abbastanza da ripopolare la città di Qaraqosh dopo i tanti esili volontari?
 
Boati. Arriviamo a Qaraqosh che appare subito una città spettrale. Deserto, qualche soldato fa capolino qua e là, sparute macchine di abitanti che vogliono controllare lo stato delle loro case. Non una sola abitazione appare indenne: quasi la metà ha subito incendi, le altre danneggiamenti quasi sempre tali da impedire di essere abitate se non dopo radicali ristrutturazioni. In lontananza si odono i boati della guerra che infuria a 25 chilometri da qui, a Mosul. Ogni tanto si odono spari ravvicinati, chissà, inquietanti. Dense colonne di fumo si alzano da tutta la città. Ogni tanto passano blindati e mezzi militari scoppiettanti.
 
Le vie e le case. Per quattro ore seguo abuna Georges su e giù per le stradine della città cristiana. Entriamo in tante case, ovunque lo stesso odore di morte. A volte mi chiedo chi mai abbia potuto escogitare tanta fantasia distruttrice. L’accanimento a volte si è rivolto contro le pentole di casa, altre volte contro gli infissi, o i vetri, o i gradini, o i divani… La pazzesca avventura del Daesh ha qualcosa di mostruoso. Anche perché figlio illegittimo di troppi attori nello scenario mediorientale. Chi è innocente nel consesso internazionale alzi la mano.
 
Le scritte. Un po’ ovunque si vedono scritte inneggianti allo Stato islamico, volte ad affermare una supremazia che non poteva aver altra energia che la forza bruta. «Lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria permane e si espande», è scritto dinanzi alla chiesa siro-ortodossa di San Giorgio, il cui campanile sta su per miracolo. Era proprio sulla line del confine tra forze irachene e del Daesh, poco è rimasto in piedi. Ma scrivono anche i cristiani: «Qui dentro c’erano 5 tonnellate di grano che sono state rubate dall’Isis».
 
Il sindaco. Incontriamo il sindaco in tuta mimetica. È accompagnato da tre statunitensi, il capo è tutto in nero, con giubbetto antiproiettile d’ordinanza. I “consiglieri militari” a stelle e strisce sono più di quanti non ci si immagini. Da Erbil a Qaraqosh ho visto coi miei occhi almeno tre basi Usa. Il sindaco lamenta lo stato penoso delle infrastrutture pubbliche che sta ispezionando con l’uomo in nero. Delle case private e delle chiese, invece, ci sono solo i cristiani ad occuparsene.
 
Il papà sotto il fico. Incontriamo due uomini, uno abita a Londra e l’altro a Stoccarda. Hanno appena trovato i resti del padre sotto il fico del loro giardino. I miliziani del califfato l’avevano sepolto solo per evitare che imputridisse all’aria aperta. Domani faranno i funerali. Aveva 73 anni, non aveva voluto andarsene, «non saprei dove vivere altrove», s’era giustificato con moglie e figli. In qualche modo è uno dei martiri di Qaraqosh.
 
Le chiese profanate. Visito cinque chiese assieme ad abuna Georges. Una peggio dell’altra. Ne riparlerò, perché l’accanimento del Daesh contro i simboli del cristianesimo fa spavento. Più il Cristo che la Madonna, in ogni caso. Croci vecchie e nuove, piccole e grandi, in qualsiasi materiale, sono state spezzate, divelte, abbattute. Ma erano talmente tante che i miliziani del Daesh non sono riusciti a cancellare il simbolo del dolore redento.
 
Diabolica presenza. Confesso di sentirmi accompagnato per tutte le quattro ore del mio giro per la città distrutta. Una presenza inquietante, che non è riconducibile ai boati che si sentono in lontananza, o alle pire nere che si innalzano qua e là. Una presenza sorda e muta, ma evidentissima. Tutto è distruzione, tutto è divisione, tutto parla di separazione. Diabolica presenza, colui che divide.
 
Capisco, ma… Capisco allora l’odio che avverto nelle parole di tanti cristiani, che esplicitamente dicono di considerare tutti i musulmani come colpevoli degli eccessi inescusabili del Daesh. Il loro desiderio di tornare a Qaraqosh è irretito nelle maglie della paura. Capisco il loro astio, la difficoltà emotiva e razionale di accettare gli insopportabili vicini. Capisco, capisco, capisco. Ma non posso accettare completamente l’idea che sia impossibile convivere. Se non si conviverà, semplicemente i cristiani spariranno da queste terre.
 
«Grazie a Dio». Davanti alla chiesa di san Giovanni Battista due uomini si avvicinano e ci mostrano le case distrutte. Uno di loro l’aveva costruita in 12 anni di duro lavoro e l’aveva abitata solo per tre mesi prima di dover fuggire dinanzi all’invasione degli uomini in nero. Sulla sua bocca appare un suono strozzato, che abuna Georges mi traduce: «Grazie a Dio». Non mi è dato di capire a cosa si riferiva quell’uomo, se alla grazia di essere ancora vivo, alla grazia di poter ricominciare una vita, a chissà cosa d’altro. Ma sono parole che suonano più vere di tutte le distruzioni che ho visto.