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10 novembre 2016

Dall’Iraq alla Somalia, il sangue dei martiri «seme di nuovi cristiani»

By Romasette
Vanessa Ricciardi

Padre Rebwar Basa ha visto morire in Iraq altri parroci come lui, unica colpa l’essere cristiani. “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani?”: la domanda, a cui padre Basa ha dato una risposta, è il titolo dell’evento a cui ieri sera, mercoledì 9 novembre, ha partecipato insieme al vescovo Paolo Lojudice, incaricato del Centro per la cooperazione missionaria della diocesi di Roma, monsignor Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico del Vicariato, e il francescano Massimiliano Taroni, incaricato delle missioni della provincia Ofm del Nord Italia. Ad ascoltarli la sala piena del Pontificio Seminario Romano Maggiore con l’accoglienza del rettore don Concetto Occhipinti.
Padre Basa ha parlato con calma, mostrando le foto di Erbil e di Mosul, in Iraq, Paese da cui proviene. Chiese distrutte e profanate, trasfigurati dalla morte violenta, tutto per colpa dello Stato islamico: «Davanti a quella chiesa – ha detto mostrando un foto con delle rovine – c’era scritto “O Maria dà la pace al nostro Paese”, quella era la cripta della chiesa di San Giorgio, lì avevo pregato per 9 anni». Le persecuzioni, ha raccontato, sono iniziate molto prima: «Nel 1915 siamo stati vittime di un genocidio, poi già nel 2004 in sette chiese sono stati commessi degli omicidi». Il terrore non si è fermato: ancora vittime, come padre Ragheed Ganni di Mosul, morto il 3 giugno 2007, che padre Basa conosceva. «Lo hanno ucciso la domenica dopo Pentecoste, assieme ai tre suddiaconi che erano con lui: Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, Gassan Isam Bidawed. Da piccolo dicevano che fosse già santo, ed è divenuto un martire».
Padre Ragheen aveva 35 anni e aveva studiato a Roma, all’Angelicum, ospite del Pontificio collegio irlandese. Pochi mesi dopo la sua morte, la stessa sorte è toccata al vescovo di Mosul, monsignor Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio 2008: «Sapeva cosa rischiava – ha raccontato padre Basa -, da tempo riceveva minacce, ma lo stesso non ha voluto andarsene. Come padre Jacques Hamel, che Papa Francesco ha proposto per la beatificazione, è stato ucciso per la sua fede, ma in più con la consapevolezza del pericolo a cui andava incontro». Il problema però non è solo l’estremismo islamico: «La recente Costituzione del 2005 non tutela i diritti di tutti i cittadini ma stabilisce come religione di stato solo quella musulmana, togliendo i diritti a tutti gli altri». Il cristianesimo qui non è solo una religione: «Continuiamo a insegnare il cristianesimo: il cristianesimo si preoccupa dei diritti umani, perché Cristo è morto per salvare l’uomo. Spero che un giorno i volti di quei martiri saranno davanti a san Pietro».
Anche la Somalia, ha raccontato frate Taroni, testimone del sangue versato dai missionari, ha i suoi martiri. Negli anni ’90 i cristiani sono stati costretti ad allontanarsi, monsignor Salvatore Colombo e padre Pietro Turati, per 40 anni a Mogadiscio, sono stati brutalmente uccisi accanto alle loro chiese: «Padre Colombo stava cercando di mediare per scongiurare il conflitto civile, ma il 9 luglio è stato ucciso; il 14 luglio è cominciata la guerra». Non c’era più nessuna parrocchia fino a pochi anni fa: «Oggi ci sono poco più di 40 fedeli, è un seme molto piccolo, ma c’è di nuovo».
Don Massimiliano Testi, parroco di Sant’Innocenzo, organizzatore della serata insieme al Centro Missionario, l’Ufficio catechistico, l’associazione Finestra per il Medio Oriente l’associazione Arché e Aiuto alla Chiesa che soffre, ha proposto di istituire delle giornate per ricordare questi martiri, in particolare padre Ragheed nel decennale della sua morte. Di fronte a queste vittime, ha commentato monsignor Lojudice, «dobbiamo continuare a porci delle domande». Ha poi citato padre Andrea Santoro, fidei donum ucciso in Turchia: «Lui chiedeva: non è vero che se ami e conosci Dio lo fai conoscere e se non ami, anche se possiedi la scienza e sai le lingue, non sei nulla ma solo un tamburo che rimbomba?».