Pagine

3 ottobre 2016

Dentro la guerra

Andrea Oltolina

Dal 13 al 20 aprile 2016 sono stato nel nord dell’Iraq, nella regione autonoma del Kurdistan. L’occasione è giunta grazie all’invito di Giorgio, priore del monastero della Piccola Famiglia della Risurrezione a Marango (VE), e di Gemma, del monastero della Piccola Fraternità di Gesù di Pian del Levro (TN).
Ci conosciamo da tempo e hanno offerto alla nostra comunità di prendere parte a questa esperienza, che loro avevano già vissuto. La trasferta è finalizzata a incontrare tre monaci siro-cattolici, conosciuti qualche anno prima.
In Iraq c’è la guerra e, prima di partire, il tema sicurezza attraversa spesso la mia mente e i dialoghi con le persone più care: fortunatamente, da questo punto di vista non ci saranno problemi. C’è però in me ancora un po’ di apprensione perché sono solo al secondo volo aereo: ma si viaggia in perfetto orario con my Austrian airlines, facendo scalo a Vienna e atterrando alle 15.00 a Erbil.
La città, una delle più antiche del mondo (i primi insediamenti datano al XXIII secolo a.C.), dall’alto mostra una evidente pianta circolare, sviluppatasi attorno alla Cittadella. Attualmente ha circa due milioni e mezzo di abitanti ed è un cantiere infinito, con interi quartieri in costruzione ma nella totale assenza di un progetto urbanistico: si vuole farne la nuova Dubai dell’Iraq ma il prezzo del petrolio è in netto ribasso, così che l’edilizia ha subìto una pausa di arresto. L’aeroporto internazionale è immenso e nuovissimo ma ci accoglie con diversi secchi di plastica: la pioggia della sera precedente ha messo in luce le evidenti falle costruttive…
In questa terra sperimenteremo una significativa escursione termica: i primi giorni ci si copre volentieri con un pile mentre negli ultimi avremo modo di verificare quanto questo luogo sia uno dei più caldi del mondo. Sull’aereo avevo ingenuamente domandato ai miei compagni se la nostra destinazione fosse in area desertica, con clima torrido: appena sbarcato resto subito sorpreso dall’ampiezza dell’orizzonte ma… quanto verde! Capisco – e avrò modo di verificarlo nei giorni seguenti – di essere nella famosa mezzaluna fertile, abbondantemente irrigata dagli antichi fiumi mesopotamici del Tigri e dell’Eufrate e intensamente coltivata: un vero paradiso!
Nella mezz’oretta necessaria per giungere ad Ainkawa, cittadina di 50.000 abitanti ormai unita ad Erbil, cerco di capire come sia possibile viaggiare su viali “modello americano” da cinque-sei corsie ma… senza semafori, senza cartelli segnaletici, senza stop e senza rotonde! Quello che a noi parrebbe inverosimile, lì si svolge con la massima naturalezza: ogni tanto si interrompe lo spartitraffico e chi deve svoltare fa “tranquillamente” inversione a U mentre le macchine sfrecciano in senso inverso…traffico folle, dove non si contano le strombazzate con il clacson! La velocità viene moderata da alcuni dossi ma soprattutto dalle innumerevoli buche nell’asfalto. Mi accorgo che ci sono targhe bianche, rosse, verdi e gialle, un numero altissimo di taxi coloro crema ma soprattutto che le macchine, oltre a essere quasi tutte bianche (la moda del momento ma anche per il calore estivo, che può raggiungere i cinquanta gradi) sono tutte di grandi dimensioni e cilindrata potente: è un importante simbolo di potere e di visibilità sociale. Noto che alla guida ci sono sia uomini che donne.
La nostra meta è il campo profughi di Ozal: 850 famiglie (3500 persone), prevalentemente cristiane ma dove c’è anche una buona presenza musulmana e perfino un gruppetto di yazidi, gruppo religioso tra i più perseguitati nella recente storia irachena. Qui saremo ospiti della comunità di monaci siro-cattolici composta da Wisam, il superiore, attualmente impiegato del Jesuit Refugees Service presente nel campo; Yasser, presbitero a servizio di chi ha subito traumi fisici e psicologici, collaboratore di un centro per la salvaguardia dei manoscritti iracheni, redattore ed editore di una rivista liturgica scientifico-spirituale; Raid, anch’egli presbitero e attuale “parroco” del campo, nonché insegnante di liturgia alla facoltà di teologia per laici.
La ragione fondamentale della nostra visita è portare loro e a tutti i cristiani dell’Iraq un profondo ringraziamento per quanto stanno insegnandoci, pagando sulla propria pelle: cosa significa essere autentici cristiani oggi, in una situazione di persecuzione. Aggiungiamo anche un piccolo sostegno economico raccolto nelle nostre comunità e per la generosità di alcuni amici, insieme a piccoli altri regali: due icone, delle medicine, qualche confezione di caffè. 
Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014 il Daesh (Isis) ha costretto gli abitanti di numerosi villaggi cristiani e musulmani ad abbandonare la propria abitazione per avere salva la vita.
Qaraqosh è un villaggio quasi interamente cristiano, di circa 50.000 abitanti, ubicato nella piana di Ninive, da cui proviene il 90% del clero e delle suore di tutto l’Iraq: colpire questo luogo aveva un evidente valore simbolico! La gente, che non ha potuto portare nulla con sé, ha compiuto un impegnativo tragitto a piedi e si è rifugiata più a nord (Ainkawa, Duhok, Zakho), magari dove già c’era una comunità cristiana. Dopo aver trascorso i primi mesi dormendo nei giardini pubblici, sperando in una soluzione rapida della crisi, si è successivamente sistemata in tende; ora la stragrande maggioranza di questi profughi è alloggiata in container o in modeste abitazioni. A ormai venti mesi dalla cacciata, tutti sperano ancora di poter tornare ma diversi sono già emigrati definitivamente all’estero (USA, Canada, Australia, Europa, Libano) mentre chi è rimasto cerca di sistemarsi sempre meglio: aprendo piccoli negozi di alimentari, di parrucchiere, venendo impiegato come insegnante o come taxista…
Le chiese, qui suddivise in diverse denominazioni (caldea, siriaca, assira, latina…), si sono coinvolte in maniera significativa per dare conforto a tutte le persone sfollate. Grazie al contributo di numerose agenzie mondiali, forniscono supporto alimentare, pagano gli affitti, hanno realizzato scuole, ospedali, luoghi di culto, cercano di creare posti di lavoro e alleviare le sofferenze. 
La vicenda degli amici monaci è bella e merita di essere raccontata.
Inizia nel 2001. A Qaraqosh un gruppo di giovani partecipano con vivacità alla vita della loro parrocchia: si ritrovano per pregare, confrontarsi sulle vicende attuali, comunicarsi le aspirazioni più profonde, fare catechesi, leggere la Parola di Dio. In alcuni di loro comincia a maturare il desiderio di vivere insieme. A servizio della chiesa e della nazione, vogliono cercare di seguire le indicazioni contenute nel libro degli Atti degli Apostoli a riguardo delle prime comunità cristiane. Ne parlano con il vescovo e questi riconosce in loro una “forma monastica”. Grazie alle indicazioni di un religioso carmelitano francese sono invitati a studiare la loro tradizione antica per adattarla ai nostri giorni. Frequentano studi teologici – Wisam viene in Italia, conosce diverse comunità monastiche, impara la nostra lingua così che ora può fare da tramite con il nostro gruppetto – e iniziano a vivere stabilmente insieme. Naturalmente in arabo e con significative parti in siriaco, la preghiera si nutre dei bellissimi inni di Efrem e viene tutta cantata. Per restare vicini alla gente e soprattutto ai giovani si inventano un lavoro come “netturbini” e ripuliscono Qaraqosh coinvolgendo una quarantina di giovani.
Dei quattro del gruppo iniziale, uno muore in uno scontro con un carro armato americano mentre Raid resta seriamente ferito. Ora sono stati costretti a scappare con la loro gente e gestiscono il campo profughi dove siamo accolti. Vivono in una modesta casetta mal rifinita, dove hanno anche creato una “cappella” tirando una tenda nel locale più ampio: in essa ci ritroveremo ogni mattina per cantare qualche salmo in italiano e ascoltare la melodica cantillazione della preghiera in arabo. I tre riescono ad offrire una spartana ma calorosissima accoglienza ai cinque (insieme a noi tre vi è anche una coppia di Treviso, Annalisa e Giorgio) amici italiani.
Subito siamo sorpresi dall’ospitalità e dalla generosità alimentare di tutti: in qualsiasi casa, campo profughi, episcopio, monastero entreremo, immediatamente siamo accolti con grande gioia e fraternità. Malgrado le pessime condizioni abitative di alcuni, un bicchiere di tè è sempre pronto per l’ospite! Delle curiose confezioni di singoli bicchieri d’acqua vengono distribuite in ogni occasione di incontro. Quel poco che si ha lo si condivide, non è mai trattenuto pensando al futuro seguendo una logica “prudenziale”.
L’alimentazione, tradizionalmente, non prevede portate successive: sul tavolo si trova fin da subito tutto quanto è a disposizione. Al mattino, oltre all’immancabile tè e al buonissimo pane arabo, yogurt, marmellata e una deliziosa crema di sesamo; a pranzo e cena il riso si accompagna a verdure crude e cotte, spesso si aggiungono delle brodose minestre, la carne e il pesce non mancano, abbonda la frutta. Poche le spezie, ottimo il gusto! Nelle giornate di festa possono comparire anche bevande gassate e uno yogurt liquido da bere.
Gli sfollati in Iraq sono milioni, tutti rifugiatisi al nord. Le chiese cristiane gestiscono, solo in Ainkawa, ventisei campi profughi, altri sono gestiti dallo stato. Ognuno ha una storia a sé e molto dipende dalle capacità organizzative dei responsabili, laici o preti che siano, oltreché dalla disponibilità economica. Se in qualche campo è possibile rinvenire addirittura strutture “sorprendenti” (campetto per calcio a cinque in erba sintetica), il grosso dell’impegno va per strutturare asili e scuole primarie (ma c’è anche una università con alcune facoltà ad Ainkawa): non si vuol privare del futuro i più giovani. È significativo che una delle prime disposizioni di Daesh è impedire ai bambini di andare a scuola, di pensare e ragionare, di studiare.
Resto davvero impressionato dal campo insediato allo Sporting Center, una struttura governativa con un campo sportivo, una piscina e una pista di atletica. Una serie di container, inizialmente disposti a sufficiente distanza l’uno dall’altro, hanno ora creato tra di loro un “corridoio” molto più ristretto in ragione dell’ampliamento, realizzato con materiale di fortuna (cartoni, teli in plastica, assi di legno) da ogni famiglia, di una “cucina” esterna. Non c’è spazio vitale, il rischio di esplosione delle bombole esposte al sole è altissimo. Come se non bastasse, tra i vari container scorrono abbondanti rivoli di acqua sporca, frutto della “lavanderia” famigliare. I bagni sono naturalmente esterni. Ogni famiglia ha normalmente quattro-cinque figli: riuscire a vivere e dormire in sei metri per due, senza finestre e con cinquanta gradi in estate non è semplice… La raccolta dell’immondizia – mi dicono – è molto migliorata dall’anno precedente: ci dicono però che i topi scorrazzano liberamente e i bambini girano a piedi nudi nell’acqua sporca…
C’è un’arte dell’arrangiarsi, dell’imparare a vivere con quello che oggi c’è, senza sperare ed esigere troppo, anche in situazioni terribili e faticosissime. Questa è una grande lezione.
Il campo peggiore che abbiamo visitato ad Ainkawa è stato certamente quello gestito dalla Barzani Charity Foundation: tutto “statale” e con ospiti solo musulmani, scacciati da Mosul e da Baghdad. 271 famiglie, 1420 persone. Tutti ancora in tende piantate su terra battuta che, in inverno e con la pioggia, si trasforma in fango, al punto che i bambini non riescono a raggiungere la scuola interna. Chi abita qui non vuole tornare a casa ma andare in Europa… Non hanno più speranza e non credono che Mosul sarà mai liberata.
Una coraggiosa ragazza musulmana, responsabile scolastica di 500-600 bambini, lei stessa scacciata dalla provincia di AlAnbar, alla domanda se credesse ancora nella pace, non ha dato altra risposta che: “Ci sono stati troppi morti…”. Se i cristiani hanno le chiese e strutture di supporto dietro di loro, in questo campo non hanno nessuno, perché lo stato fa molto meno!
Dal dinamico vescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Warda, resosi disponibile per un incontro-intervista la domenica mattina, veniamo a conoscenza dell’ingente giro di denaro che le chiese si trovano a gestire in questa situazione di difficoltà. Gli riportiamo esplicitamente la testimonianza che diversi ci hanno insinuato girando per i campi: la distribuzione di soldi e beni primari non è poi così equa; l’occasione di dare una testimonianza di collegialità ecclesiale in questa situazione di urgenza funziona fino a un certo punto e continuano a prevalere i vari campanilismi; i preti che sono stati messi come responsabili dei campi sono stremati dalle richieste della gente e si trovano a svolgere un compito da assistente sociale, tralasciando la dimensione spirituale; la gerarchia appare distaccata dalle vicende reali della gente… La replica è realistica e formale al contempo: non siamo in paradiso, facciamo quello che possiamo, cerchiamo di documentare tutte le spese per evitare qualsiasi forma di corruzione e prepotenza, restiamo in situazione di urgenza. 
Uno degli aspetti maggiormente presente nei campi profughi, soprattutto cristiani, è quello della depressione (per la mancanza di lavoro; per le persone della famiglia scomparse, rapite, uccise; per le violenze subite; per le attuali precarie condizioni di vita), che colpisce gli adulti come i ragazzi e perfino i bambini (che, fortunatamente, sono tantissimi e, nella maggioranza dei casi, sempre sorridenti e desiderosi di ricevere abbracci): i volti tristi immortalati nelle foto non lasciano dubbio in merito. La speranza per il futuro è centrale: “Se anche riusciremo a tornare nei nostri villaggi, sarà possibile di nuovo la convivenza con i vicini musulmani che, subito dopo la nostra cacciata, hanno depredato le nostre case e le hanno occupate? I curdi, che ci hanno già tradito e massacrato nel passato, come si comporteranno? C’è ancora posto per i cristiani in Iraq?”
Non si “insegna” il perdono a chi ha perso tutto – è troppo, almeno per ora –, si cerca tutt’al più di suggerire che non si ripaghi il male con il male e si spera che questo induca “il nemico” alla riflessione. Un vescovo diceva che solo la preghiera personale può sostenere la propria tenuta. Il responsabile laico del campo profughi di Al Amal (La Speranza) ci dice: “Come possiamo odiare se Gesù ci dice di amare i nemici?”. Mons. Rabban, vescovo di Duhok, dal piglio apparentemente profetico (ma alle cui spalle campeggiava una gigantografia di Barzani, l’eroe militare del Kurdistan), ci diceva che bisogna innanzi tutto combattere il disfattismo e la depressione – “Fare il futuro e non aspettare il futuro!” – e che bisogna ritornare a vivere fianco a fianco dei musulmani come in passato: dobbiamo però anche armarci…
Più volte abbiamo ascoltato la critica verso la politica europea di accogliere i musulmani in Europa. E dinanzi al nostro tentativo di giustificare le scelte in atto in ragione di una “umanità” che non guarda al colore della pelle, della nazionalità o addirittura della religione, la replica è che ci accorgeremo tra vent’anni di chi abbiamo in casa. In Medio Oriente i musulmani sono moderati ma nel confronto quotidiano con gli europei, divengono radicali.
Posta a un vescovo la domanda se in Europa stiamo davvero sbagliando ad accogliere i musulmani, la replica è stata: “Fate questa domanda alle persone che vivono nei campi profughi… che stanno pagando sulla loro pelle la radicalizzazione islamica di alcuni gruppi”. Grande irritazione l’ha destata anche il papa, che proprio nei giorni del nostro soggiorno, ha visitato Lesbo e ha portato a Roma tre famiglie di islamici… Credo che se, da un lato, non possiamo accettare una discriminazione a partire della religione, va altrettanto rispettata la posizione e la sofferenza di questi nostri fratelli perseguitati.
Una riflessione particolare va fatta riguardo la situazione bellica, nella quale si aggrovigliano tutte le altre dimensioni di questa magnifica terra.
Sembra che la radice ideologica di Daesh sia da ritrovare in alcune affermazioni del sunnita radicale giordano Al-Zarqawi, che riteneva più importante uccidere uno sciita che un americano! Questa linea di pensiero è stata assunta da jahdisti e quindi dal Daesh, generando pertanto una lotta interna all’Islam e aprendo le porte alla guerra civile.
A livello territoriale di tutto il Medio Oriente, vi sono, da un lato, il blocco sciita (da alcuni ritenuto più morbido e culturalmente preparato) con Iran, la maggioranza degli iracheni, la Siria e il Libano; dall’altra abbiamo quello sunnita con l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e l’agguerrita minoranza irachena. I due gruppi, a livello di super potenze mondiali, sono sostenute (sebbene non ufficialmente) rispettivamente da Russia e Usa.
Sotto Saddam, che era sunnita, i cristiani erano stimati e, per la loro integrità morale, occupavano posti significativi nell’ambito lavorativo e governativo. Una volta caduto il regime dittatoriale, dapprima sostenuto e poi abbandonato dagli Usa, gli sciiti hanno preso il potere e hanno tolto ogni responsabilità ai militari sunniti di Saddam. Questi hanno ora sposato la causa di Daesh, in quanto sapevano solo combattere e questo hanno continuato a fare.
A livello geo-politico, attualmente, c’è una divisione triplice in Iraq: gli sciiti a sud-est, i sunniti a ovest, i curdi (prevalentemente sunniti) al nord e c’è chi propone di dividere l’Iraq in tre stati, malgrado l’opposizione statunitense a questo progetto. I curdi hanno una autonomia regionale che vorrebbero fosse riconosciuta a livello internazionale come nazione a sé stante.
Tutto il petrolio iracheno dovrebbe essere gestito dal governo centrale di Bagdad, che ordinariamente versava il 17% del ricavato al Kurdistan. Oggi i curdi estraggono immense quantità di petrolio nel loro stesso territorio, lo vendono alla Turchia – abbiamo visto colonne di autobotti dirigersi verso nord – senza più comunicare la quantità e il prezzo allo stato iracheno; il quale, per ritorsione, non sta più pagando gli stipendi ai suoi dipendenti.
Ci sono poi, evidentemente, “linee rosse” non ufficiali ma che vengono rispettate e che giocano un peso enorme: come mai Daesh non ha bloccato la strada che sale verso la Turchia, sebbene le sue postazioni militari siano a poco più di dieci chilometri? Da dove passano le armi di cui si rifornisce lo stesso Stato Islamico? L’ipotesi di un “inciucio” tra Kurdistan e Daesh sembra reale. Eppure i curdi stanno anche combattendo il Califfato, sebbene non vogliano farlo insieme all’esercito iracheno, per evitare di scatenare una guerra civile: ognuno cerca di guadagnare terreno ma sembra prevalere un interesse particolare, tribale piuttosto che nazionale. Mosul è tutta sunnita ma i curdi, se vi entrano e la liberano, vogliono farlo da soli, altrimenti ci sarebbe una battaglia tra liberatori…
Tutti coloro che abbiamo interpellato sono comunque convinti che la situazione si sbloccherà solo e soltanto quando e come lo vorranno gli Stati Uniti, “che sono solo dei cowboys senza cultura e che vogliono essere i padroni del mondo!” E, se si scava un po’ e si cerca di capire quale possa essere la ragione che muove gli americani a questo atteggiamento, compare senza ombra di dubbio anche Israele, “il vero motore economico del mondo di cui gli Usa sono succubi”. Questa lettura è fortemente radicata e si impone in continuazione… Molti cristiani ci dicono anche che Putin ha fatto un buon lavoro bombardando il Daesh (e non solo)!
Difficile riuscire a sbrogliare il nocciolo della matassa, soprattutto per noi occidentali! Ma proprio l’aggrovigliarsi delle questioni e degli attori in gioco fa l’interesse delle forze in campo…
La Chiesa irachena sembra impostata secondo un modello tradizionale. Il prete – abouna – ha un ruolo centrale nella vita religiosa della comunità e tutti gli portano grande rispetto, lo salutano e gli baciano le mani. Abbiamo potuto constatare come diversi parrocchiani, nei giorni della nostra permanenza, portassero con gratitudine da mangiare ai tre monaci: pane cotto in casa, vino, frutta, pietanze.
In ragione della maggioranza musulmana, il giorno di festa in Iraq è il venerdì e le celebrazioni liturgiche che comportano una partecipazione collettiva significativa (comunioni, cresime, matrimonii…) sono tenute nel giorno di riposo ufficiale mentre la domenica si celebra l’eucaristia la mattina presto, prima dell’inizio del lavoro e della scuola, e nel tardo pomeriggio. Vi è grande partecipazione, con molti giovani e moltissimi canti (sentir cantare in arabo Simbolum 77 di Sequeri è stato sorprendente!). Durante le riunioni e le celebrazioni, gli uomini siedono nella navata di sinistra e le donne in quella di destra (ma la prima fila è comunque occupata da uomini!); non c’è scambio della pace tra uomini e donne.
La posizione della donna, sia nel mondo cristiano che musulmano, è molto precisa. Ci si sposa molto presto (15-16 anni per le femmine), con matrimoni combinati dalle famiglie, che permettono alla donna un minimo di libertà in più: non si dà loro infatti la possibilità di uscire da sole, senza un uomo che sia il marito. Le ragazze cristiane sono molto truccate e vestono in modo appariscente. Le donne lavorano molto, gli uomini fumano, guardano e attendono…
I giovani sono anche critici riguardo l’azione della gerarchia, un po’ troppo generica nelle indicazioni pastorali. In un incontro con il patriarca dei siro-cattolici mons. Younan, alla domanda sul ruolo della cultura nella vita di un giovane che lamentava di non poter più frequentare l’università in questa situazione di persecuzione, ha risposto che importante è rimanere, che la cultura non è tutto nella vita e si può essere buoni cristiani anche se non si è studiato in università…
Si rispettano, ovviamente, anche coloro che partono per altre zone del mondo, ma l’invito è a rimanere, anche perché se ci si allontana dalla propria terra si perde l’identità cristiana e si indebolisce la propria fede. Qualcuno del nostro gruppo ha commentato che non sembra esista la volontà reale di risolvere i problemi, c’è grande attenzione all’apparenza esteriore!
Sembra che nessuno riesca ad avere notizie riguardo i villaggi occupati – distanti non più di quindici chilometri e a venti minuti di strada dall’ultimo posto di blocco – ,cosa oggettivamente inverosimile con i mezzi scientifici a disposizione (droni, satelliti spia…): forse non ci si vuol illudere… Tutte le abitazioni hanno una parabola satellitare e la televisione: si cercano continuamente notizie ma ufficialmente sono rare.
Alcuni riescono a trovare anche aspetti positivi nella nuova situazione: hanno conosciuto nuovi amici, perfino tra musulmani e yazidi, riconoscendo un valore universale all’umanità tout court.
Verso la fine del nostro soggiorno, abbiamo visitato il monastero di Al-Qosh, un villaggio interamente cristiano dove c’è un monastero del VII secolo. Qui c’è anche la tomba del profeta Naum, segno inequivocabile della presenza ebraica almeno a partire dal VI secolo a.C., il tempo della deportazione in Babilonia... Fino a poco tempo fa c’erano villaggi dove si parlava ancora in ebraico; ora resta solo qualche famiglia.
L’ultimo giorno della nostra permanenza abbiamo fatto due interessanti incontri, che ci hanno lasciato un po’ di speranza. A Duhok lavora una organizzazione italiana, Un ponte per, che supporta e coordina alcune attività di riconciliazione attraverso la mediazione di ong arabe, curde, yazide, cristiane. Cercano di mettere insieme arabi e curdi, cristiani e shabak (altra minoranza perseguitata) aiutandoli a conoscere una libertà partecipativa, sconosciuta ai più. Tutti costoro sono stati colpiti da Daesh e ora hanno stilato alcuni programmi:
1) individuare i responsabili e metterli in carcere;2) curare le ferite di coloro che sono stati colpiti, fisicamente e moralmente;3) formare una comunità che cerca di vivere in pace.
Il sostegno viene dato a singoli individui e non ai governi, in quanto questi sostengono solo la loro parte contro le altre.
Una giovane donna yazida ci ha raccontato una straziante testimonianza: le donne dei loro villaggi, considerate adoratrici del diavolo, sono state ripetutamente violentate, rapite e ridotte in schiavitù: ora, anziché reagire con la violenza alla violenza, cercano di parlare tra di loro di tutte queste violenze per iniziare un cammino di recupero. Alcune fuggono, soprattutto in Germania, che è il primo paese di emigrazione degli yazidi, ma non è la soluzione. Questo gruppo è uno dei più colpiti: hanno ancora famigliari (di cui non sanno più nulla) che abitano nei territori occupati dal Daesh, vivono in tende, hanno pochissimi soldi.
Il secondo incontro è stato fatto a Ainkawa con p. Nagjjb, un domenicano iracheno che sta realizzando, con il supporto economico-digitale di alcuni monaci benedettini americani e la collaborazione di alcune studentesse universitarie irachene, la scansione fotografica di tutti i manoscritti, cristiani e non, dell’Iraq, mettendoli on line a disposizione di tutti gli studiosi. Sembrerebbe un lavoro inutile – di fatto, ha salvato alcuni testi che, attualmente in mano a Daesh, non si sa se siano ancora disponibili o siano stati distrutti – ma lui, che è anche responsabile di un campo profughi al cui ingresso c’è la lettera araba con cui inizia il nome di nazirei (ossia i cristiani) dentro a un cuore, dice che bisogna salvare le vite insieme alla cultura: mai uno senza l’altro! Una splendida testimonianza.
I tre monaci che ci hanno ospitato sono stati molto contenti della nostra visita e sperano di poterla presto ricambiare. Dicono che non hanno mai sentito parlare con tanta franchezza i loro vescovi e questo è dovuto alla nostra presenza. Sono rimasti molto sorpresi del nostro interesse per la loro vicenda, che dura nel tempo, del fatto che continueremo a parlare di loro, in modalità e ambienti differenti.
Noi siamo ripartiti con un gran dolore nel cuore per la sorte di tutto il popolo iracheno, ma anche con la certezza di aver incontrato persone e cristiani autentici, che ci possono insegnare una vera sequela del Signore Gesù. Personalmente, sono rimasto colpito e affascinato dalla capacità di rimanere “dentro” le situazioni in una tale insicurezza e fragilità: un modo unico di donare gratuitamente.

Andrea Oltolina è monaco benedettino della comunità monastica della Santissima Trinità di Dumenza (Varese)