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8 settembre 2016

Mourad: quella messa celebrata sotto il dominio del Califfato

By La Stampa - Vatican Insider
Gianni Valente
Adesso padre Jacques Mourad è a Sulaymaniya, nel Kurdistan iracheno. Fa il sacerdote a servizio anche dei tanti sfollati cristiani provenienti da Qaraqosh, nella Piana di Ninive, fuggiti davanti all’avanzata dei jihadisti dello Stato Islamico. Gli stessi che nel maggio dello scorso anno avevano rapito anche lui, prelevandolo dal monastero di mar Elian, tenendolo segregato per mesi e poi riportandolo nella sua città di Quaryatayn, dopo averla conquistata, insieme ad altre centinaia di cristiani che come lui avevano sottoscritto con lo Stato islamico il «Contratto di protezione». 
La vicenda personale di padre Jacques, membro della comunità monastica fondata da padre Paolo Dall’Oglio, tornò sotto i riflettori nell’ottobre scorso, quando il monaco siro-cattolico riuscì ad allontanarsi dai territori controllati dai jihadisti. Dopo alcuni mesi trascorsi a Roma per curarsi, Mourad è voluto tornare in Medio Oriente. Nei giorni ordinari del suo nuovo luogo di preghiera e lavoro vede ancora intrecciarsi una convivenza armoniosa di popoli diversi, «messa alla prova solo da motivi che hanno a che fare con la religione e la politica». Fa catechismo ai bambini, li prepara alla Prima Comunione, in tutta semplicità. Mentre ricorda a Vatican Insider che un anno fa in questi giorni celebrava la sua prima messa in stato di semi-prigionia, nelle terre sotto il dominio del Califfato. 

Come celebravate messa sotto il regime jihadista?  
«A Quaryatayn riuscimmo a celebrare la prima messa il 5 settembre. I jihadisti dello Stato Islamico ci avevano riportato nella nostra città, più di 250 cristiani, dopo averci tenuti in ostaggio in vari posti. Abbiamo trovato un luogo sotto terra in uno stabile, in quello che un tempo era il quartiere abitato da cristiani. E mentre celebravamo la messa insieme, siro-cattolici e siro-ortodossi, eravamo pieni di stupore per il miracolo che stavamo vivendo»
Tutti?
«Si. Ma soprattutto io. Dopo 4 mesi e 15 domeniche di prigionia, era la prima messa che celebravo. All’inizio c’era paura: e se arrivavano loro, i jihadisti? Come avrebbero reagito? Poi, ho sentito prevalere in me la gratitudine, e il rendimento di grazie per colui che mi aveva sostenuto in tutte quelle prove. Anche mentre mi dicevano che mi avrebbero sgozzato, se non mi convertivo. Ho ripensato tanto a quella messa, dopo che mi è giunta la notizia del martirio di padre Jacques Hamel, trucidato davanti all’altare nella sua parrocchia di Francia». 
In prigionia, quando non poteva celebrare messa con gli altri, cosa faceva?
«Ogni volta, all’alba, cantavo tutta la messa ricordandomi del coro della mia parrocchia, e poi delle messe celebrate al monastero di Mar Musa… Per un certo periodo sono stato tenuto prigioniero anche a Raqqa, la città dove è sparito Paolo Dall’Oglio.. Quando sono stato lì, me lo immaginavo in una situazione simile alla mia, in quella stessa città, magari a poca distanza da me, e lo sentivo vicino. Vicino come all’inizio del nostro comune cammino monastico, a Mar Musa, il monastero nel deserto. Quel bagno dove mi tenevano chiuso, aveva una robusta porta di ferro che mi ricordava quella della mia cella, al monastero. Ho avuto un paradossale rapporto di amicizia con quella prigione. Non era una situazione confortevole, soprattutto per la mia salute fragile. Ma non ho sentito angoscia. Ho avvertito la grazia vissuta da san Paolo, quando ha sentito il Signore che gli diceva: “Ti basta la mia grazia”. Anche nel fondo della mia debolezza, era Lui a rivelare la Sua forza». 
 Quale è la condizione spirituale prevalente per i cristiani coinvolti nel conflitto siriano?  
«Si chiedono come è stato possibile tuto questo. Ma poi rendono grazie a Dio, e si affidano alle sue mani. Non ho visto persone ribellarsi contro Dio». 
 Negli ultimi mesi si sono intensificati gli interventi militari contro lo Stato Islamico. Alla luce della sua esperienza, come li guarda?  
«Ricordo quando vennero da Mosul a Quariyatayn gli emissari del califfo al Baghdadi, per annunciarci cosa ne sarebbe stato di noi, secondo il decreto dello Stato islamico. Era il 31 agosto. Ricordo che dicevano: noi vogliamo spargere paura nel mondo, perché i “crociati” stanno bombardando la terra dell’islam. Sono loro che attaccano, uccidono bambini e donne, distruggono le case. Noi difendiamo solo i nostri territori e l’islam contro gli aggressori… Oggi, lo devo ripetere: i bombardamenti servono ad aumentare e rafforzare questo sentimento tra tanti, e non sono tutti jihadisti». 
Un cristiano come può guardare a quello che succede lì?  
«Può guardare a quello che accade avendo nello sguardo anche l’immagine di come Cristo ha compiuto la nostra salvezza, partecipando alla nostra sofferenza. Solo così si può guardare da cristiani alla tragedia di un Paese che muore, dove tutti sono straziati. Come i milioni di profughi che hanno perduto tutto e vivono nella disperazione. E le parole dei cristiani che soffrono per la guerra possono diventare le stesse di Cristo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”». 
In Europa, le comunità musulmane vengono pressate a esprimere una posizione netta di condanna della violenza giustificata con la religione….  
«La paura è un fattore che paralizza anche loro. E il loro silenzio viene bollato come un sintomo di complicità con chi sparge massacri e terrore. Serve coraggio, per affrontare momenti così duri, e sciogliere anche questo equivoco». 
 Papa Francesco ha detto che non si tratta di una guerra di religione.  
«È sempre più evidente che le ragioni che mantengono aperte le guerre sono ragioni economiche. Una smania feroce e insaziabile di accumulare che è essa stessa segno di morte e distruzione. Cosa vogliamo, oltre la ricchezza, oltre il potere, oltre lo sviluppo moderno, cosa cerchiamo ancora? L’appello profetico di papa Francesco, che proprio in questo tempo ha proclamato l’Anno santo della misericordia, si muove a questo livello vertiginoso. Abbiamo bisogno della pace che viene da Dio». 
In Europa crescono verso migranti disprezzo e rifiuto.  
«Tutti si mettono ad accusare i migranti, a dar loro la colpa di tutto, come fece Adamo con Eva nel Paradiso terrestre. Siamo riconoscenti e commossi per ciò che fanno i volontari delle organizzazioni europee e internazionali a favore dei popoli coinvolti dalle guerre. E vediamo quanti accolgono con spirito fraterno gli immigrati. Le reazioni sconsiderate di qualcuno non rappresentano certo gli altri. E abbiamo assolutamente bisogno di aiuto e di sostegno dall’esterno. Nello stesso tempo, la ricerca delle responsabilità per tutto quello che succede, e anche per le sofferenze inflitte a popoli interi, costretti a fuggire dalle proprie case, porta anche alle scelte politiche europee e nordamericane». 
 Ma non c’è niente da salvare, negli interventi messi in atto dalla comunità internazionale?  
«Adesso nessun popolo può liberarsi da solo da queste guerre. Lo vediamo in Siria, in Iraq, in Yemen. Lo vediamo dovunque. Ci sono altre potenze e altre forze che alimentano lontano dai propri confini delle guerre per procura. Oggi, agli analisti veri, non sfugge niente. Molti vedono ciò che succede sotto i tavoli dei governi e delle istituzioni internazionali. E da quando le potenze economiche e militari si sono coinvolte nelle guerre in nome della difesa dei popoli e della democrazia, i motivi e le occasioni per nuovi conflitti si sono moltiplicati. Si evita accuratamente di prendere iniziative che sarebbero scontate, se davvero le scelte politiche e strategiche fossero coerenti con le dichiarazioni di principio. Per esempio la Russia, per dimostrare davvero il suo amore per il popolo siriano, potrebbe aprire le sue porte agli sfollati e ai profughi fuggiti dalla Siria. E questo permetterebbe anche di diminuire la tensione in Europa intorno all’emergenza dell’immigrazione».