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20 giugno 2016

Erbil, la Chiesa caldea riflette sulle sfide della missione fra jihadismo e migrazione

 
Rilanciare l’azione e l’opera pastorale della Chiesa irakena e la missione nel Paese e fra le comunità della diaspora, rafforzando “la nostra fede e la nostra speranza”. Assumersi la “responsabilità” di quanto “sta accadendo” in una nazione e in una regione caratterizzata da “saccheggi, devastazioni, violenze e migrazioni”.
Con questo spirito si è aperta oggi la due giorni di
summit della Chiesa caldea, che si riunisce il 20 e il 21 giugno a Erbil, nel Kurdistan irakeno, per ripensare all’opera di evangelizzazione e al ruolo del sacerdote nella comunità. Nell’area hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di cristiani in fuga da Mosul e dalla piana di Ninive, con l’ascesa dello Stato islamico (SI) nell’estate del 2014.
In una nota pubblicata sul sito del patriarcato caldeo, a firma di Mar Louis Raphael Sako, l’incontro del clero caldeo è presentato come una occasione per riflettere davanti ai “rapidi cambiamenti politici e sociali” che si sono verificati in Iraq nell’ultimo decennio.
Dall’invasione statunitense e la successiva caduta del ra’s Saddam Hussein, la nazione ha vissuto un cambiamento che ha “colpito tutti i ceti sociali”. Uno stravolgimento politico, sociale e umano che ha investito “la vita stessa del sacerdote” e che, in questo Anno della misericordia indetto da papa Francesco, deve diventare esso stesso uno spunto per rinnovare la missione.
Il futuro della comunità caldea si basa in gran parte sulla qualità del suo clero; ecco perché alla base dell’incontro di Erbil vi è il desiderio da parte dei vertici della Chiesa locale di “trovare un nuovo stile di gestione” delle sfide e rispondere alle necessità dei fedeli “nel Paese natale e nella diaspora”. 
A questo si aggiunge il proposito di trovare “nuove modalità” per “vivere il cammino sacerdotale”, un servizio che richiede “una preparazione accurata” dal punto di vista culturale e psicologico. “Il sacerdote - si legge nella nota patriarcale - deve essere testimonianza di Cristo” e vivere con la propria gente, condividerne il cuore “non con le parole, ma con il suo esempio”. 
L’auspicio, conclude il comunicato patriarcale, è che l’incontro del clero caldeo possa “dare nuova forza” alla missione ed essere “fonte di consolazione” per la “sopravvivenza” della comunità cristiana irakena e di “fedeltà” alla “chiamata a Cristo”. 
Alla vigilia dell’incontro del clero il patriarcato caldeo ha infine voluto sottolineare il successo della giornata di digiuno e preghiera che si è tenuta lo scorso venerdì 17 giugno, in “solidarietà” con i musulmani nel mese sacro di Ramadan. Condividere il digiuno e la preghiera, spiegano fonti del patriarcato, è stato “un messaggio di amore e fratellanza” e un segno di “rispetto” nelle relazioni fra musulmani e cristiani, oltre che un “rifiuto dell’ideologia estremista, della divisione e dell’odio”. 
L’invito lanciato da Mar Sako e dalla leadership caldea è stato accolto con favore “da molte chiese a Baghdad e in tutto l’Iraq”, a dispetto di alcune polemiche emerse nei giorni precedenti sull’opportunità di condividere un precetto caratteristico di un’altra fede. 
In concomitanza con la giornata di digiuno e preghiera, il patriarcato caldeo ha infine deciso di stanziare 50mila dollari per l’acquisto di pacchi di cibo e altri generi di prima necessità da destinare alle famiglie sfollate di Anbar e Fallujah, in larghissima maggioranza musulmane. Una iniziativa condivisa da molte famiglie cristiane della capitale, che hanno “dato una mano” in modo “silenzioso” per l’allestimento degli aiuti.