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14 giugno 2016

Cristiani perseguitati. L’Europa non ci pensa, l’America tace, i musulmani non agiscono

By Tempi
 
dall’Osservatore Romano – È un libro crudo, quasi spietato nella sua lucidità, quello che Daniel Williams ha dedicato alla persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. Un libro (New York – London, O/R Books, 2016, pagine 211, euro 12) che già dal titolo Forsaken («Abbandonati») The persecution of Christians in today’s Middle East contiene una precisa denuncia: la comunità internazionale, e in particolare l’occidente, ha lasciato i cristiani mediorientali al loro destino fatto di violenze, di deportazioni, di espulsioni. Un fenomeno che magari, in altre circostanze, verrebbe definito genocidio, ma che in questo caso viene abbondantemente sottostimato, se non apertamente ignorato.
«In America — racconta Williams durante un incontro avvenuto all’Osservatore Romano — nessuno dei due partiti maggiori parla della questione, soprattutto in questa campagna elettorale per le presidenziali. In Europa poi la situazione è anche peggiore. I cristiani non sono riconosciuti come popolo da salvare. In Europa si percepisce una sorta di sentimento anticristiano, come se ci si dovesse vergognare di volere tutelare e difendere queste persone. Nessuno, davvero nessuno, fa attenzione alla tragedia dei cristiani in Medio Oriente e paradossalmente è stato dedicato più spazio alla persecuzione degli yazidi che ha suscitato una giusta onda di indignazione».
Il libro di Williams non è la riflessione di un intellettuale elaborata a tavolino. È invece uno studio capillare maturato sul campo. L’autore è stato infatti corrispondente in Medio oriente per numerose testate statunitensi come il Washington Post, il Los Angeles Times e Bloomberg News. Più recentemente ha operato nella sezione di Human Rights Watch centrata sulle emergenze, dedicandosi in particolare alle violazioni dei diritti umani durante la cosiddetta Primavera araba.
E senza mezzi termini, Williams parla di «epidemia di persecuzioni» dopo l’affermarsi dei movimenti che hanno disegnato un nuovo scenario politico in alcuni paesi del Nord Africa, trascinandone altri in una sanguinosa guerra civile. «Non c’è una connessione diretta tra le persecuzioni e la Primavera araba — sottolinea — ma è indubbio che l’ideologia del jihad si è innestata con facilità soprattutto in quei luoghi dove si è registrato un vuoto di potere. E la novità del jihad sta proprio nel proclamare l’esclusione del cristianesimo che deve essere eliminato in quanto pericoloso. È un fenomeno visibile non solo in Siria o in Iraq, ma nella stessa Palestina e in Egitto, perché i jihadisti non hanno bisogno di una grande consistenza numerica per ottenere con la violenza i loro scopi».
In effetti la realtà è sotto gli occhi (distratti) di tutti. In Siria, almeno un terzo della popolazione cristiana è stata costretta ad abbandonare le sue case, in Egitto i copti sono protagonisti di vere ondate migratorie.

In Iraq, i cristiani sono attualmente circa trecentomila, mentre non molto tempo fa erano oltre un milione. Proprio in Iraq, secondo Williams, si è avuta la prima dimostrazione della mancanza, da parte occidentale, di una corretta percezione delle dinamiche mediorientali. Quando nella primavera del 2003 la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti entrò in Iraq per rovesciare Saddam Hussein, le operazioni militari non vennero accompagnate da una giusta valutazione delle conseguenze della guerra. «Era totalmente assente una prospettiva storico-politica. L’unico scopo era rovesciare il regime, senza pensare al dopo. Esattamente come, qualche anno più tardi, è avvenuto in Libia con le tragiche e ben note conseguenze». Uno sguardo tutto rivolto al contingente che certo non poteva, o forse non voleva, tenere in considerazione il futuro delle popolazioni cristiane. Un silenzio colpevole è calato sul loro destino e i jihadisti, conquistando territori in cui lo Stato non era più presente, hanno potuto facilmente cacciarli. Come è avvenuto a Mosul, dove nel luglio del 2014 — con un triste rituale che ricorda l’inizio delle persecuzioni degli ebrei europei — le loro case furono marchiate. Tre le alternative per i cristiani: convertirsi all’islam, pagare una tassa proibitiva che comunque non mette al riparo da violenze e angherie, o andarsene. Come è logico che fosse, nel giro di pochissimi giorni oltre centoventimila cristiani fuggirono da Mosul e dai villaggi circostanti.
«Ma se i cristiani sono stati privati della loro terra — sottolinea Williams — il Medio Oriente rischia di perdere una parte importante della sua storia e della sua cultura. Le comunità cristiane con la loro presenza bimillenaria hanno offerto un enorme contributo alla formazione della stessa coscienza nazionale dei singoli Paesi. Ora questo processo di impoverimento culturale appare irreversibile. Dopo anni e anni di esclusione, se non di aperta persecuzione, i giovani cristiani mediorientali non hanno alcuna prospettiva e, chiaramente, preferiscono emigrare. Gli unici soddisfatti sono i jihadisti che mirano ad azzerare la pluralità».
In alcuni Paesi, come in Siria e in Egitto, i cristiani sono accusati dai loro persecutori di mettersi dalla parte sbagliata della barricata, di sostenere cioè dei regimi dittatoriali. «Ognuno di noi — spiega l’autore di Forsaken — sta vicino a chi promette protezione. Ma nel caso dei cristiani questa accusa non è sempre vera. In Egitto, ad esempio, i copti sono stati protagonisti dei moti di piazza che hanno condotto alla caduta di Mubarak. Tuttavia, questo non li ha messi al riparo dalle inaudite violenze che li hanno colpiti in seguito, secondo una logica che, evidentemente, aveva poco a che fare con lo schieramento politico».
Uno scenario davvero triste, reso ancora più desolante dalla persistente latitanza della comunità internazionale, ostinata a difendere interessi parziali. «Nessuno, tranne il Papa e pochi altri, cerca di difendere i cristiani del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma quello che più lascia stupiti è la mancanza di iniziative. Negli Stati Uniti la questione è caduta nel dimenticatoio. L’Europa pensa a se stessa. Ma a dire il vero, oltre alle dichiarazioni di circostanza, dovrebbero essere prima di tutto i musulmani ad agire». Per i cristiani perseguitati, infatti, le parole non bastano davvero. Mai come in questo caso, per parafrasare un celebre detto anglo-sassone, inaction speaks louder than words («l’inerzia parla più forte delle parole»).