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3 maggio 2016

«Perché nessuno fa niente per fermarli?»

By Tempi
 
Quando gli uomini barbuti dello Stato islamico bussarono alla porta di casa sua, a Mosul, chiedendole di lasciare la città in quel momento o di pagare la jizya, M., cristiana irachena, fu colta di sorpresa. Chiese di pensarci su un momento, perché la figlia si stava lavando sotto la doccia, ma i jihadisti non avevano tempo da perdere e bruciarono la sua casa. M. non riuscì a salvare la figlia, che morì tra le sue braccia pronunciando queste ultime parole: «Perdonali».
Questa e altre testimonianze della persecuzione dei cristiani ad opera dell’Isis sono state raccontate dal 28 al 30 aprile a New York, durante il secondo congresso internazionale #WeAreN2016. La “N” sta per nazareno ed indica la lettera che i terroristi islamici hanno dipinto sui muri delle case cristiane di Mosul, in Iraq, per requisirle in quanto «proprietà del Califfato».
IL SACCO NERO.
Il 28 aprile la conferenza si è tenuta alle Nazioni Unite, su invito dell’osservatore permanente della Santa Sede. Ha parlato anche Samia Sleman, yazida di 15 anni, tenuta in cattività dall’Isis per sei mesi. La ragazza è stata rapita insieme ad altre migliaia di donne nell’agosto del 2014: ha visto bambine di sette anni stuprate e convertite all’islam e donne troppo mature per servire da schiave sessuali uccise brutalmente. «Perché nessuno fa niente per fermarli?», ha implorato Sleman. «Perché la comunità internazionale non si impegna concretamente per difendere le minoranze in Iraq?».Un’altra storia raccontata riguarda una coppia irachena, i cui bambini sono stati rapiti dai jihadisti. Un giorno hanno sentito bussare alla porta e hanno trovato davanti a casa un sacco nero di plastica. All’interno c’erano i resti smembrati dei figli e un filmato che riprendeva gli stupri e le torture che le figlie avevano dovute subire prima della morte.
CRISTIANI NASCOSTI.
All’esterno del Palazzo di vetro è intervenuto anche l’arcivescovo cattolico di Aleppo Jean-Clement Jeanbart, che ha portato insieme al gruppo CitizenGO le 400 mila firme di una petizione perché il Consiglio di sicurezza dell’Onu riconosca il genocidio delle minoranze in Medio Oriente e lo fermi.
 L’arcivescovo melkita, pur sottolineando l’orrore della guerra che sta decimando i cristiani di Aleppo, in Siria, ha raccontato un aneddoto carico di speranza: «Durante la Settimana Santa migliaia di persone hanno partecipato alle celebrazioni. Ho celebrato la Domenica delle Palme con 3 mila fedeli, abbiamo anche fatto la processione con la banda. Non ci aspettavamo di vedere così tante persone presenti. Quei giorni hanno confortato pastori, sacerdoti e fedeli perché eravamo spaventati e temevamo che fossero rimasti in città solo circa il 25 per cento dei cristiani. Invece la metà risiede ancora ad Aleppo. Tanti sono tornati da Damasco, da Latakia, dal Libano e questo ci dà speranza per il futuro. Può ancora esserci del bene, ci sarà chi costruirà perché una nuova chiesa risorga».
L’ULTIMO PEDIATRA?
Monsignor Jeanbart ha anche criticato l’informazione unilaterale: «Il governo sta cercando di liberare la città dopo che per mesi gli aleppini sono stati bombardati [dai ribelli]. Ovviamente è triste che un ospedale sia stato distrutto. Ma Medici senza frontiere ha dichiarato che l’ultimo pediatra è stato ucciso. Non è vero, ce ne sono molti altri dove più di un milione di persone vivono. Quando sentite parlare delle sofferenze di Aleppo, spesso si parla del regie che attacca i civili controllati dai ribelli. Ma è quasi sempre vero l’opposto. Non sto scusando il regime di Assad, ma non posso permettere che le menzogne continuino a informare il mondo. (…) Noi abbiamo più libertà di coloro che vivono nell’altra [metà di Aleppo]. Fino a quando non attacchi i soldati del governo, puoi anche criticare il governo e non ti succede niente. Ma se fossimo dall’altra parte, verremmo obbligati a convertirci all’islam e saremmo cittadini di serie B, senza diritti».