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21 aprile 2016

Sacerdote irakeno: la mia vocazione, nel dramma della guerra e della malattia

Dario Salvi
 
Una vocazione al sacerdozio che trae origine e viene alimentata dalle “malattie” e dal “dramma di una nazione” martoriata da decenni di guerra e divisioni confessionali; una storia personale che si intreccia con la vita del proprio Paese, al quale è legato da un affetto profondo e nel quale “se Dio vorrà” desidera svolgere la propria missione.
Così p. Gabriele Firas A Kidher, sacerdote irakeno, racconta ad AsiaNews la scelta di consacrare la vita a Cristo, un “desiderio che è cresciuto nel tempo” per donare “la mia vita alla gente che soffre”. “La fragilità umana, le ferite nel corpo e nell’anima - aggiunge - non devono far perdere la speranza, perché Gesù è con noi. Questo vale anche per il popolo irakeno, per i cristiani di quella terra”. 
P. Kidher ha 39 anni - è nato a Baghdad il 12 marzo 1977 - ed è membro della congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù. Egli è uno dei diaconi cui papa Francesco ha conferito l’ordinazione sacerdotale domenica 17 aprile, nella basilica di san Pietro.
Nato e cresciuto in Iraq in una famiglia di profonda fede cattolica (uno zio sacerdote e due zie suore), egli ha vissuto il dramma di tre guerre - contro l’Iran, l’invasione del Kuwait e la caduta di Saddam Hussein - e sperimentato in prima persona l’odio confessionale per i cristiani. Trasferitosi in Italia, egli si è formato fra i padri rogazionisti dei quali è rimasto affascinato dopo aver incontrato un sacerdote della congregazione: “Sono rimasto colpito dalla sua testimonianza - racconta - dal suo invito a mantenere il cuore di Cristo, compassionevole e zelante, misericordioso”.
Il primo evento che segna la sua vita avviene quando è ancora bambino a Qaraqosh, cittadina della piana di Ninive, dove la famiglia si era trasferita per sfuggire alle violenze nella capitale nella guerra degli anni ’80 con l’Iran. “Un camion mi ha investito - racconta - e sono rimasto in coma per 13 giorni. Per i medici dovevo morire ma, a un certo punto, nel buio ho visto un uomo vestito di bianco, che mi prendeva per mano. Dopo poco mi sono svegliato e ho subito pensato fosse Gesù. Credevo di essere rimasto incosciente per pochi minuti, in realtà erano trascorsi diversi giorni”. 
Da bambino non è possibile cogliere le sfumature degli eventi, prosegue, però quella è stata la prima tappa di un percorso di crescita e formazione.
In seguito all’incidente ha dovuto subire diverse operazioni, ma non si è mai perso d’animo e con lo stesso spirito, qualche anno più tardi, affronta la malattia: “All’università - ricorda p. Kidher, laureato in Biologia genetica a Mosul - una grave malattia ha colpito il midollo osseo e ho dovuto restare fermo, nel letto, per sette mesi. In quel periodo ho compiuto una rilettura profonda della mia vita. Ho riletto la Bibbia passo passo, in particolare la vicenda di Giobbe. Ero partecipe della sua sofferenza. Vivevo una lotta col Signore, che poi è maturata fino a immaginarmi in San Pietro”. Nel dramma trova la forza per confrontarsi con un padre spirituale, che lo conduce alla maturazione e all’idea di avvicinarsi al sacerdozio “pur senza sapere in quale ordine religioso”. 
Egli si trasferisce in Italia nel 2004 dove vive una prima esperienza ad Assisi e “radica la fede”. Dopo quasi due anni di discernimento, l’8 settembre 2007 a Messina fa il suo ingresso nei rogazionisti. E ancora, compie studi di teologia alla Lateranense, che completerà entro la fine di questa estate. Egli ha alternato letture e libri in Italia a periodi - anche lunghi - di missione in Iraq. “Mi hanno mandato - racconta - per un anno a Bartella e Qaraqosh, fra il 2012 e il 2013 e proprio a Qaraqosh avrei dovuto compiere la professione perpetua, il primo luglio 2014, ma l’arrivo dello Stato islamico ha stravolto i piani”. 
P. Kidher ha avuto a che fare in prima persona con i terroristi: “Nel 2014 - ricorda - sono scampato a un attentato a Mosul, per mano di gruppi estremisti islamici”. Nella seconda città per importanza dell’Iraq egli ha compiuto gli studi universitari ai primi anni duemila, ma “negli ultimi tempi, ancor prima della presa dello SI, era un’altra città. Mi sembrava di essere in Afghanistan, era già da tempo in mano ai fondamentalisti”. 
Nel descrivere i rapporti con i musulmani e la regione islamica, p. Gabriele Firas A Kidher narra un aneddoto dei tempi dell’università: “Il professore, musulmano, chiedeva a noi studenti un’opinione sulla genetica partendo dalla religione di appartenenza. I musulmani erano contrari. Quando sono intervenuto ho detto che se un qualcosa è a favore dell’essere umano, ne migliora la vita senza intaccarne i valori, questo è un bene. Da biologo posso dire che in passato si uccidevano moltissime mucche per ricavare l’insulina, mentre ora grazie alla ricerca questo non serve più. Tuttavia, loro non volevano ascoltarmi”.
Il problema di fondo nei rapporti con l’islam, spiega, consiste in questo: la mancanza di apertura, “non solo a livello di pensiero ma anche di religione”.
Per questo, prosegue, è “necessario” un lavoro “sulle generazioni che verranno, far capire il valore del confronto, dello studio, dell’apertura verso l’altro”. “Anche io - prosegue - ho avuto parenti uccisi dai fondamentalisti a Mosul perché cristiani. Hanno ammazzato mio cugino e suo padre nel 2007, ai tempi della crisi fra sunniti e sciiti in città. I cristiani erano un ponte di pace, di unione, ma guardavano a noi con sospetto perché non ci schieravamo”. 
Di recente p. Kidher è tornato in Iraq e ha visitato i campi profughi di Erbil e del Kurdistan. “Una immagine mi ha colpito - ricorda - ed è quella di una mamma che teneva in braccio il suo bambino mentre lei era immersa nel fango, dopo una notte di pioggia. Cercava di riscaldarlo col proprio corpo, mentre lei si manteneva eretta nonostante le difficoltà. Ecco, questa è una grande testimonianza… Io soffro, ma voglio proteggere mio figlio’”. 
In quest’anno giubilare della Misericordia, il sacerdote irakeno vuole concludere lanciando un piccolo messaggio a quanti desiderano coltivare la vocazione e dedicare la vita a Cristo: “La misericordia non è una parola o un concetto - conclude - ma un desiderio da mettere in pratica ogni giorno in modo concreto. Ed è possibile farlo in molti modi, aiutando i poveri, i migranti, gli emarginati… essi sono un modo vivo e attuale per sperimentare la misericordia. Le persone di buona volontà, che vogliono seguire Cristo, devono saper amare abbracciando la sofferenza”.