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9 dicembre 2015

Lezione di provvidenza dall’Iraq

Nunzio Galantino

La richiesta de Il Sole 24Ore mi raggiunge mentre da un paio di giorni sono in missione in Iraq. Mi si offre la possibilità di stendere un editoriale, un contributo sull’Anno della Misericordia che inizia oggi con l’apertura solenne della Porta Santa.
Scrivo queste righe – appunti, frasi smozzicate che escono più dall'inchiostro del cuore che dalla riflessione – mentre dal nord del Kurdistan iracheno rientro verso Erbil. I fari della macchina guidata da padre Samir, che ci fa da guida, illuminano un breve tratto della pista; attorno a noi è il silenzio, come avvolti dal silenzio e dalla dimenticanza appaiono i villaggi accanto ai quali transitiamo. Rivedo le persone incontrate quest’oggi a Enishke, nelle montagne fra Zakho e Dohuk: sono volti e storie destinate a rimanere impresse per sempre nella memoria. Appartengono a gente fiera, impoverita dalla sera alla mattina dalla violenza della persecuzione.
Ecco la giovane moglie di Khalifa Ali, che piange il marito con il quale era sposata da poco più di un anno, ucciso a 22 anni mentre con altri peshmerga combatteva per liberare le sue colline nel Sinjar. Nella casa accanto, raccolgo muto l’esperienza di Mahaia: la ragazza avrà forse vent’anni e fino allo scorso maggio ha conosciuto la prigionia di un emiro dell’Isis. Entrambe appartengono alla comunità di profughi yazidi, come l’uomo che chiede la parola e si alza per dire con semplicità il suo ringraziamento: «Voi cristiani ci siete sempre stati vicini: la Chiesa non ci ha fatto mai mancare nulla». Guardandomi attorno, ho intuito che questa gente vive di speranza e s’accontenta di ciò che da noi non basterebbe nemmeno all’ultimo dei poveri. Li ho lasciati con una promessa, che mi sono sentito di dover fare a nome di tutta la Chiesa che è in Italia: «Non temete! Finché avrete bisogno, noi saremo al vostro fianco».
Nell’oscurità dell’abitacolo ora guardo padre Samir attento a evitare le buche più profonde. Penso a questo prete, conosciuto in diverse comunità del nostro Paese, che ha rinunciato a percorrere altre strade – certamente più comode – per scegliere di tornare e rimanere fra la sua gente. Il rapporto con lui ci ha permesso, attingendo anche un milione di euro dai fondi 8xmille, di portare avanti la realizzazione di qualche progetto di solidarietà, a partire dalla ristrutturazione di abitazioni e all’allestimento di scuole. Sono migliaia le famiglie, fuggite in fretta, di notte, dalla furia omicida dei terroristi dell’autoproclamato Stato islamico: in questa zona hanno trovato l’accoglienza accogliente e generosa delle comunità cristiane. «Nel rispondere a infinite richieste di cibo, acqua e ricovero – confida Samir – devo riconoscere che ho toccato con mano la presenza di una Provvidenza enorme, che ci ha permesso di non restare sepolti nell'impotenza; ma abbiamo veramente bisogno che non ci abbandoniate».
Ci avviciniamo ormai alla città. Le sue periferie pullulano di profughi, anche se questi mesi hanno permesso di passare dalle tende e dai container ad abitazioni più dignitose.
«La gente vive un desiderio struggente di tornare alle proprie case – mi racconta ancora – pur nella consapevolezza che sono state depredate dai jihadisti o da vicini di casa, che hanno potuto rimanere proprio perché musulmani. Quindi, anche immaginando un improbabile ritorno di quanti hanno dovuto abbandonare Mosul e la Piana di Ninive, non sarà facile ricostruire la convivenza sociale. Senza lavoro né sicurezza, molti cercano di emigrare all'estero: ci sono ragioni fondate perché tra qualche anno qui non vi sia più nemmeno la traccia della presenza cristiana».
Proprio per fermare questo esodo lo scorso anno attraverso Caritas Italiana abbiamo deciso di proporre, quale aiuto concreto, una sorta di gemellaggio tra le famiglie, le parrocchie e le diocesi italiane e quelle dei profughi: qui con 5 euro al giorno si riesce a garantire un minimo ad un nucleo di cinque persone; con 140 euro si copre un mese intero. Nella consapevolezza, però, di come accanto al bisogno di cibo ci sia quello non meno importante di assicurare nutrimento per la mente, abbiamo anche accettato di finanziare per 2 milioni e 300 mila euro a Erbil un’Università che consenta l’accesso a tutti; un’Università in cui anche i giovani profughi, che qui hanno trovato riparo, possano completare il loro cammino formativo.
La sua inaugurazione – fissata per oggi, festa dell’Immacolata – è stata l’occasione dell’invito, il motivo principale della mia presenza qui. Avrei dovuto e voluto essere in Piazza San Pietro per un’altra inaugurazione e vivere in prima persona il dono di un Anno Santo. Se fossi rimasto a Roma altre sarebbero state anche le parole di questo mio editoriale: più riflessive, dense di dotte citazioni e di sollecitazioni esistenziali. Qui, invece, mi sento un po’ come se fossi a Bangui, altra terra che da anni conosce la guerra e l’odio, l’incomprensione e la mancanza di pace. Come ha affermato Papa Francesco una decina di giorni fa, dopo essersi impuntato per entrare nella Repubblica Centrafricana al culmine del suo viaggio, in quella terra sofferente sono rappresentati tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra. Ci sono, quindi, anche l’Iraq, la Siria, la Terra Santa…: non a caso, nel proclamare Bangui «la capitale spirituale del mondo», il Santo Padre ha chiesto pace, riconciliazione, perdono, amore per tutto il mondo, per i Paesi che soffrono la guerra, per quanti non conoscono il dono della pace; ha fatto appello perché ci si armi piuttosto della giustizia e dell’amore, autentiche garanzie di convivenza riconciliata.