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26 novembre 2015

Patriarca Sako: Iraq senza democrazia. Rapiti 36 civili


In Iraq, il sedicente Stato islamico ha preso in ostaggio 36 civili nei pressi di Shirqat, città nel nord del Paese. E mentre prosegue la lotta contro l’Is, sono ripresi i bombardamenti di Ankara nella zona irachena di Zakho vicino al confine tra il Kurdistan e la Turchia. In questo quadro, il Patriarca caldeo, Louis Raphael I Sako, ha detto che “in Iraq oggi non c’è traccia della tanto declamata democrazia” e “che attualmente non esiste in concreto nemmeno un piano per la Siria".
Massimiliano Menichetti ha parlato della situazione con Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali:

In Iraq, non possiamo parlare di democrazia anche se ci sono state elezioni. Queste erano necessarie ma non sono sufficienti per parlare di sistema democratico. Diciamo che abbiamo sostituito il potere della minoranza sunnita con il potere della maggioranza sciita, ma siamo ancora a livello della resa dei conti, delle vendette, cioè siamo ancora molto arretrati. In Iraq, adesso, praticamente il governo di Baghdad è sempre più legato con l’Iran: la zona a nord della zona curda è sostanzialmente indipendente e poi c’è tutta la zona desertica e delle paludi del sud, dove abitano i sunniti: questa è quella contestata e da cui si cerca di mandar via l’Is.

Come si gestisce questa frammentarietà? Cosa accadrà, dopo?
Ci sono alcuni che pensano a una spartizione, oppure alla creazione di nuovi Stati: Kurdistan, Sunnistan, ecc… C’è invece chi pensa semplicemente di creare delle zone sotto tutela delle potenze che avranno vinto la guerra, un po’ come accadde in Germania dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel complesso, però, secondo me in questa maniera si aprono dei vasi di Pandora gravi, perché sarebbe un processo difficile da interrompere e che moltiplicherebbe la conflittualità in Medio Oriente e in Africa.
Iraq e Siria sono legati: anche qui la situazione non sembra migliorare
La situazione è abbastanza chiara, secondo me: abbiamo tutta una serie di milizie divise tra loro, che combattono in genere contro Assad, tra loro e quasi tutte contro Daesh, ovvero il sedicente Stato islamico. Gli alleati esterni si collegano ognuno a una di queste milizie: gli americani sono più legati ai curdi, i turchi con i turcomanni e con alcune altre piccole milizie locali, i russi con gli alawiti e con il regime di al-Assad e così via...

Ma questo vuol dire che ognuno combatte una propria battaglia?
Praticamente sì. C’è un nemico comune teorico, che sono appunto Daesh e al Qaeda, ma in realtà questo nemico comune viene quasi in secondo piano, rispetto a tutte le altre azioni. Chi più si dedica a combattere questo nemico sono gli americani – adesso con i francesi, un po’ gli inglesi – ma dall’aria, con bombardamenti aerei. Tutti sono convinti che – checché ne dicano i russi – Assad, anche se restasse al potere, resterebbe al governo di una piccola porzione della Siria e che quindi noi andiamo anche qui verso una sorta di spartizione del Paese. E tutti si posizionano per avere la possibilità di ricavare una fetta più ampia di territorio siriano o anche siro-iracheno: perché anche l’Iran è coinvolto in questo pasticcio. L’Is, in tutto questo, non fa che fare più o meno lo stesso gioco, con l’aggravante di farlo in maniera particolarmente violenta.
Qual è la via, secondo lei?

La via è quella di un gruppo di contatto in cui ci si mette d’accordo politicamente e si conducono insieme le operazioni militari, possibilmente contro il sedicente Stato islamico, non contro tutti gli altri. Però, siamo ancora lontani da questo.