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30 novembre 2015

Erbil, scuola di speranza contro l'incubo Daesh

By Avvenire
Luca Geronico

Superare il trauma, ricostruire relazioni positive, ridare fiducia. Le chiamano «attività ponte» per far superare l’«inevitabile senso di rottura », spiegano i responsabili dell’équipe giunta dall’Italia. Ridare senso e ordine ai ricordi e alle emozioni, soprattutto quelle di bambini che ormai da oltre 15 mesi bivaccano in quelle scatole di sardine che sono state le microstanzette di Ankawa Mall, e ora i mille container di Ankawa 2. Ricordi di una fuga nella notte, e racconti di violenze dei “diavoli neri” del Daesh.
L’idea, semplice quanto ambiziosa, è di riuscire a formare anche nel cuore del centro di accoglienza dei rifugiati della Piana di Ninive, operatori sociali e insegnanti adeguatamente formati per operare in un «contesto di crisi».
Così dal 15 al 24 novembre, per dieci giorni, il grande spazio riunioni fra i container dell’Hope center, la scuola materna costruita da Focsiv, e le tre aule per i bambini, si sono riempite di insegnanti e bambini a scuola di “resilienza”. Un kit didattico con spiegazioni in inglese ed arabo, la presenza di interpreti locali, e soprattutto «una grande voglia di imparare », racconta Valentina Hurtrubia, pedagogista con precedenti esperienze in campi profughi in Libano e in Giordania. Con lei Alessandra Cipolla, laureata in psicologia, per sviluppare il progetto “Tutori di resilienza”.
Un piano di lavoro già sperimentato in altre situazioni di emergenza dal Centro studi sulla resilienza dell’Università Cattolica di Milano diretto da Cristina Castelli, che per la prima volta in questi giorni a Erbil ha messo in atto una collaborazione con il Centro Sportivo Italiano: anche l’attività ludico-sportiva come fattore di rinascita per una comunità di profughi. Emanuele Villa e Valentina Piazza, laureati in Scienze motorie sempre all’Università Cattolica, i due giovani tecnici in “trasferta” nell’Erbil dei profughi cristiani. Moduli didattici al mattino per gli insegnanti della scuola Focsiv, ma anche di altre strutture locali, come di operatori di Ong. Parte pratica al pomeriggio con disegni, giochi, canti e, sul campo di pallacanestro appena costruito da Focsiv, gincane e percorsi didattici far giocare i bambini e i ragazzi delle diverse fasce di età.
Alla fine coinvolti più di 800 i ragazzi coinvolti e 32 operatori sociali, tutti presenti alla festa finale per la consegna dei diplomi a cui era presente pure il console italiano Carmelo Ficarra. «Un modello di intervento che ha interessato anche altre importanti Ong presenti a Erbil. E soprattutto si è riusciti a dare un supporto di qualità al personale che, va ricordato, è composto essenzialmente da educatori e allenatori che sono loro stessi dei profughi », fa notare Terry Dutto, direttore del progetto Focsiv a Erbil. La speranza è che l’“onda lunga” del progetto si diffonda e faccia scuola. «Non escludiamo di poter fare in futuro, d’intesa con la diocesi di Erbil, un progetto anche per i religiosi che sono loro stessi profughi e hanno, come guide delle comunità, un impressionante carico psicologico da portare », spiega la professoressa Cristina Castelli. Intanto da qualche giorno, anche ad “Ashti 128”, il campo a fianco di Ankawa 2 diretto da padre Jalal Yako, è iniziata grazie ai fondi raccolti da Focsiv, la costruzione di una scuola materna.
Si lavora anche al campo Ishtar, quello degli yazidi, per ultimare un campo di pallavolo. Gocce di speranze, mentre minaccioso avanza il generale inverno e le Nazioni Unite, con i conti in rosso, stanno ormai dimezzando i loro interventi. Solo il 10% del progetto educazione dell’Onu è attualmente finanziato, con 250mila minori fra i profughi in Iraq senza istruzione. Intanto il voucher per comprare cibo destinato ad ogni profugo censito, già ridotto in passato, in settembre è sceso da 18 a 10 dollari al mese mentre ancora 300mila persone in tutto l’Iraq, all’inizio dell’inverno, sono senza una tenda e almeno una stufa al kerosene.

ll Patriarca caldeo: durante l'Avvento preghiamo per la liberazione di Mosul

By Fides

Nel “tempo forte” dell'Avvento, durante le celebrazioni liturgiche quotidiane, in tutte le chiese caldee del mondo i fedeli pregheranno per invocare il dono della liberazione di Mosul e dell'intera Piana di Ninive, e chiedere che vengano garantiti i diritti delle minoranze religiose che vivono in Iraq.
Sono queste le due intenzioni di preghiera che il Patriarca caldeo Louis Raphael I ha suggerito ai cattolici caldei presenti in Iraq e a quelli sparsi nelle comunità in diaspora, con un messaggio diffuso nella prima domenica d'Avvento.
Nel testo, pervenuto all'Agenzia Fides, si invitano i fedeli a pregare affinché la liberazione dei territori iracheni conquistati dai jihadisti dello Stato Islamico (Daesh) permetta presto agli sfollati di far ritorno alle proprie case, e si auspica che la desiderata tutela dei diritti delle minoranze religiose si concretizzi anche nella modifica della legge sull'islamizzazione dei minori (il testo giuridico, fortemente contestato dalle minoranze religiose irachene, che di fatto impone il passaggio automatico alla religione islamica dei minori quando anche uno solo dei due genitori si converte all'islam).
La città di Mosul è caduta sotto il controllo dei jihadisti del Daesh dal 9 giugno 2014. Quasi due mesi dopo, nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, le milizie jihadiste hanno conquistato molte città e villaggi della Piana di Ninive, provocando anche la fuga di decine di migliaia di cristiani caldei, siri e assiri.

Patriarca Sako: nelle violenze e persecuzioni, la misericordia è il cammino del cristiano

By Asia News
Louis Raphael I Sako
*

Indetto da papa Francesco, il prossimo 8 dicembre si aprirà il Giubileo straordinario della Misericordia, che verrà celebrato non solo a Roma, ma in tutte le diocesi del mondo e nei principali santuari.
Alla vigilia delle celebrazioni, il patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako ha scritto una lettera pastorale, inviata per conoscenza ad AsiaNews, in cui ricorda che “la misericordia è il cammino del cristiano”, in particolare nei momenti di prova e di sofferenza. Sua beatitudine spiega che la misericordia “non è un ideale vago”, ma un comportamento “ricco, aperto e dinamico alla luce della fede e alla maniera di Gesù”. Per noi cristiani, ricorda, “il martirio è il carisma della nostra Chiesa” e, rivolgendosi ai musulmani, esorta a “collaborare con loro per una vita comune, in pace e armonia”.
Ecco, di seguito, la lettera pastorale di Mar Sako:
Introduzione
La misericordia non è un ideale vago, ma è un comportamento cristiano ricco, aperto e dinamico alla luce della fede e alla maniera di Gesù.  È il suo primo annuncio, il “kerigma”. La misericordia è la prima preghiera nel Vangelo. “Signore pietà” vuol dire “abbi misericordia di me”, in greco vuol dire “ungermi con olio, per essere guarito”. Questo richiede il nostro continuo impegno di crescere in ciò che è più nobile e vero, nel cammino cristiano del discepolo di Cristo, che ci dà consolazione e forza. La Chiesa deve consolare, la sua missione è accogliere i figli feriti dal peccato e non lasciarli soli, come fa Dio che è padre e madre, consola e non si stanca mai. Seguendo Gesù, la Chiesa deve essere madre e maestra. Ma può essere maestra solo in quanto è madre. Per questo molti si aspettano da papa Francesco decisioni coraggiose e profetiche, in questo anno giubilare della misericordia.
La misericordia nella spiritualità della Chiesa caldea
La Chiesa caldea, che è una delle più antiche chiese cristiane, ha mantenuto la sua sobrietà lontano dal trionfalismo greco e la sua logica nel presentare la propria fede. La fede secondo la teologia caldea è un rapporto di amore, un rapporto mistico, talvolta sperimentato nel sangue (è rimasta Chiesa martire). Essa si esprime nella sua liturgia (giudaico-cristiana) attraverso la linea risurrezione, vita e rinnovamento (speranza) e nei testi dei padri che hanno cercato di aiutare i fedeli ad essere discepoli di Cristo nei dettagli della difficile vita quotidiana, con una fedeltà assoluta.
La teologia caldea si basa sulla grazia. La grazia è più grande del peccato. Non vi è alcun appello alla croce, alla sofferenza e alla mortificazione. Si tratta del Vangelo pieno di amore, misericordia, perdono, ammirazione e gioia. La Croce nelle chiese caldee è priva del corpo, come nella tomba vuota, simboleggiando così la risurrezione e guardando a Gesù risorto e glorificato, che si rivolge ai fedeli che vivono nelle difficoltà. Gesù è risorto e se saremo uniti a Lui, avremo la stessa sua sorte di risorto. Imitarlo significa ogni giorno prendere qualcosa da Lui e metterlo dentro di noi per essere incorporati e trasformati in Lui. Noi mortali uniti a Lui, l’Immortale, otterremo la vita eterna. Ciò infonde in noi grande speranza e dà coraggio. Questo cammino che penetra nel mistero pasquale è faticoso, è un cammino di perdita e guadagno, che alla fine conduce alla vita nuova.  
La misericordia prende un grande spazio nella liturgia caldea. Essa è influenzata dai Salmi di misericordia e pietà. La misericordia crea un cambiamento positivo nel peccatore, gli dà fiducia e lo aiuta alla riconciliazione con Dio e con gli altri membri della comunità. In arabo la parola “rahim-rahma” significa il grembo che accoglie la vita (i bambini). Così è il nostro Dio misericordioso, che ci accoglie come suoi figli con amore e tenerezza. Anche i nostri fratelli musulmani, come noi cristiani, invocano Dio misericordioso. Gesù nel Vangelo ci invita dicendo: “Siate misericordiosi, come misericordioso è il vostro Padre celeste”.
San Isacco di Ninive, un padre spirituale della nostra terra, vissuto nel VII° secolo, dice: “Non è degno del Signore che è amore, mandare un povero peccatore all’inferno. Questo atteggiamento non va bene con la sua misericordia. I peccati sono atti e non essenze”. Simon Taibuteh, dello stesso periodo, dice: “L’esperienza ci insegna che quando la grazia opera in noi, la luce dell’amore per i nostri fratelli si diffonderà nei nostri cuori al punto che non vediamo i loro peccati”. Narsai, del V° secolo, ha dichiarato: “La misericordia di Dio e il suo amore non si misurano dal peccato umano”. Lo “sheol" (parola) che abbiamo tradotto con purgatorio, è un luogo di misericordia. La misericordia, come l’amore, non conosce limiti. L’amore non si sbaglia mai. Dio amore e misericordia ci ama, si abbassa su di noi, ci perdona e cammina con noi. Meditiamo la parabola del figliol prodigo in Luca 15. La misericordia del padre che ci aspetta: “Buono e misericordioso è il Signore, tardo all’ira e molto benigno… Come un padre ha compassione dei suoi figlioli (Sal 103: 8’13).  Questo è il nostro Dio!”.
L’Anno santo della Misericordia
L’Anno santo della Misericordia, che inizierà l’8 dicembre 2015 e terminerà il 30 novembre 2016, è un tempo forte per noi pastori e fedeli che ci chiama a essere veri “Missionari della Misericordia”, come dice papa Francesco. È un’occasione di conversione prima per noi pastori e, in particolare, verso i “lontani” come il Buon Pastore. Egli, Figlio di Dio, pur combattendo il peccato, non ha mai rifiutato nessun peccatore. In siriaco un vescovo è chiamato Hassia, che vuol dire il portatore del perdono; dobbiamo mantenere viva nel nostro cuore la grazia della Misericordia e parlare di Dio agli uomini del nostro tempo in un modo più comprensibile, con un linguaggio adeguato e chiaro, senza lasciare niente di ambiguo e di vago. Dobbiamo annunciare il Vangelo in modo nuovo e con entusiasmo, come sta facendo papa Francesco, ci ha chiesto durante il Sinodo sulla famiglia di usare le belle parole: “Per piacere, scusa, permesso e grazie”.
Il documento d’indizione inizia con l’affermazione che “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi”. La misericordia non è una parola astratta, ma un volto da scoprire, riconoscere, contemplare e servire. Le opere di misericordia davanti al dramma della povertà e dell’ingiustizia devono spingerci a entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina”. La Chiesa si faccia voce di ogni uomo e ogni donna e ripeta con fiducia e senza sosta: “Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre” (Sal 25,6).
Dobbiamo capire meglio la realtà in cui viviamo alla luce dello spirito e non fare in maniera meccanica o solo giuridica. Approfondiamo il nostro pensiero sulla parola di Gesù. Il sabato è per l’uomo e voglio misericordia e non sacrifici ( Mat 12-7). Cerchiamo lo spirito e il senso dei gesti e interiorizzare tutto questo come Maria: “Maria conserva in cuore tutte queste cose e le meditava” (Luca 2’19) L’importanza del silenzio e della contemplazione nella nostra vita è essenziale. Il nostro obiettivo è ascoltare, dialogare e ridare speranza ai giovani, aprire davanti a loro il futuro, aiutare i vecchi, i poveri e i perseguitati. Sentire la loro sofferenza. 
Misericordia nelle sofferenze attuali in Iraq
“Per noi cristiani dell’Iraq il martirio è il carisma della nostra Chiesa. In quanto minoranza, siamo di fronte a difficoltà e sacrifici, ma siamo coscienti di essere testimoni di Cristo e ciò può significare anche arrivare al martirio” come hanno agito i nostri martiri lungo la storia, ma anche oggi: l’arcivescovo di Mosul Paolo Faraj Rahho, i padri Raghid Ganni, Wassim e Thair, e tanti fedeli. La fede e il martirio nella lingua araba hanno la stessa radice: “Shahid wa shahad”. Per noi la fede non è questione ideologica, o speculazione teologica, ma una realtà mistica di amore, è il DNA della nostra esistenza. La fede è un incontro personale con Cristo che ci conosce, ci ama e a cui ci doniamo totalmente. Per lui bisogna andare sempre oltre, fino al sacrificio come hanno fatto i cristiani di Mosul e dei villaggi della piana di Ninive un anno fa, nell’estate 2014. Sono per noi un onore e un segno di generosità.
Non vogliamo abbandonare la nostra patria svuotandola della presenza cristiana. L’Iraq è la nostra identità. Abbiamo una vocazione, dobbiamo testimoniare la gioia del Vangelo. Come Abramo figlio di questa terra che sperò, contro ogni speranza. Abramo era per tutti e noi siamo per tutti. Come patriarca, vescovi e preti siamo per tutti, per servire cristiani e musulmani, anche questa è la nostra missione che è un impegno assoluto. Nelle circostanze in cui viviamo dobbiamo essere più attenti ai nostri fratelli e sorelle sofferenti, sfollati, emigrati, ai poveri, orfani e alle vedove, metterci accanto a loro, essere presenti e vicini e accompagnarli con tutto quello che abbiamo, come forza e denaro, e dare loro segni di speranza. Che bello condividere ciò che abbiamo con gli altri, con gioia, come testimoni della nostra fede in Gesù Cristo. Quanto è bello mostrare amicizia, solidarietà e sostegno ai nostri fratelli musulmani. Dobbiamo collaborare con loro per una vita comune, in pace e in armonia. La nostra sofferenza comune diventa allora una forza, affinché passi la tempesta!
La misericordia deve essere per noi la maniera di testimoniare la presenza di Dio e di Gesù nel nostro mondo. La porta della misericordia deve essere sempre aperta: “Beati i misericordiosi, perché essi vedranno Dio” (Mat. 5-7).Ecco il nostro vangelo!

* Patriarca di Babilonia dei Caldei e presidente della Conferenza episcopale irakena

L'"Intercity Gospel Train Orchestra" in concerto a Longiano per beneficenza


L'"Intercity Gospel Train Orchestra" in concerto a Longiano per beneficenza Eventi In preparazione del Natale nella meravigliosa Chiesa del Santuario del Santissimo Crocifisso di Longiano  la comunità dei Frati Francescani e la Caritas Parrocchiale organizzano per sabato alle ore 21 un concerto Gospel  del Coro "intercity Gospel Train Orchestra".
Il coro Intercity Gospel Train Orchestra è un coro amatoriale di Forlì,  gestito dall’Associazione Musicale Intercity , associazione senza  fini di lucro, fondata nel giugno del 1994 .Il coro è costituito da una cinquantina di persone , uniti  nella volontà di comunicare con la forza e l’energia della musica .L’esperienza e la capacità di un professionista come il maestro Valerio Mugnai hanno fatto  crescere il  coro Intercity , dosando di volta in volta rigore e passione, impegno e divertimento. Il genere musicale  proposto è il Gospel  inteso come genere musicale che affonda le radici nel repertorio Spiritual degli schiavi africani deportati in America alla fine del 17° secolo. Il ritmo incalzante dei brani scandiva il loro lavoro, e consentiva in un certo senso di alleviare la fatica fisica e con il loro messaggio cristiano promettevano un futuro di salvezza, redenzione e  di giustizia contrapposto alle umiliazioni e alle fatiche a cui gli schiavi erano quotidianamente costretti. Questi brani rimangono anche a secoli di distanza,  portavoce di valori come la dignità e l’uguaglianza degli uomini.
Il coro proporrà un repertorio di canti Gospel ma anche brani pop ,arrangiati per coro a quattro voci,  brani in polifonia e brani  conosciuti , che porteranno il pubblico a diventare partecipe nel concerto, per una serata all’insegna della musica e della gioia ma anche all’insegna della solidarietà ; infatti l’evento  – ad offerta libera -  sarà l’occasione per raccogliere fondi  a favore di famiglie cristiane perseguitate dall'isis che vivono nel campo profughi di Arbil in Iraq. L’idea è nata ad Aprile 2015, quando presso il Santuario del Santissimo Crocifisso di Longiano si è tenuto un interessante incontro con Padre Rebwar Basa il quale ha raccontato in quale realtà vive la comunità cristiana in Iraq in questo preciso momento storico dopo l’arrivo e la conquista di Mosul e della piana di Ninive da parte del califfato islamico. Nei giorni successivi all’incontro è nata l’esigenza di sensibilizzare la comunità longianese su questo importante argomento senza retoriche ma con la consapevolezza di volere dare il proprio contributo a questa causa e anche alla conoscenza di realtà che sembrano così lontane da noi ma che i recenti fatti di Parigi ci dicono che nulla è lontano.
Padre Mirko Montaguti racconta di aver già raccolto, dopo l’incontro di aprile, tanti segni di vicinanza concreta verso i fratelli cristiani di oriente perseguitati e ci tiene a sottolineare che in questi momenti proprio la generosità, la voglia di spendersi e il coraggio di “pensare” sono gli strumenti migliori per alimentare in ciascuno di noi e soprattutto nel nostro tessuto sociale la dimensione della speranza. 


L'"Intercity Gospel Train Orchestra" in concerto a Longiano per beneficenza Eventi a Cesena
Per informazioni:
fr. Mirko Montaguti,
Convento SS. Crocifisso: 0547-665025
www.santcrociflongiano.blogspot.it
Stefania Meschiari, Caritas parrocchiale: 348-9806644


27 novembre 2015

Don Karam, sacerdote sfuggito all'Isis

By Nuovi Orizzonti
Silvia Piasentini

Quella che pubblichiamo di seguito è un'intervista ad un giovane sacerdote, don Karam, prete iracheno di un villaggio vicino a Mosul. Ci racconterà di come sia fuggito dal terrore dell'Isis, argomento più che mai attuale...
Don Karam ci aiuterà a capire la situazione di tanti, troppi fratelli che vivono nel terrore ma al tempo stesso riescono, grazie ad una fede straordinaria, a mantenere la Gioia e la Pace. Grazie di cuore a Pia Pisciotta che ha raccolto per noi questa preziosissima testimonianza!
"Don Karam, quanti anni hai e da dove vieni?Ho 29 anni, vengo dall'Iraq e sono sacerdote da 4 anni. Sono stato ordinato nel mio villaggio vicino a Mosul. La mia parrocchia conta quasi 1.600 famiglie per un totale di 6.000 persone circa.
Mosul è una località nota per le devastazioni dell'ISIS.
Si, i terroristi islamici hanno devastato il Museo di Ninive distruggendo statue, opere d'arte e reperti archeologici.
E il tuo villaggio?
Era un villaggio interamente cristiano, molto attivo, di persone dignitose e benestanti. Quasi tutti laureati, dottori, ingegneri, maestri, studenti, commercianti, agricoltori, lavoratori tranquilli. La parrocchia era il centro della vita locale e le celebrazioni liturgiche tanto partecipate che non bastavano i posti a sedere.
La tua è una comunità cristiana molto antica.
Si, la nostra terra era cristiana prima che nascesse l'Islam. La nostra chiesa è nata grazie alla prima evangelizzazione di S. Tommaso, apostolo di Gesù. Come etnia deriviamo dai Caldei di Babilonia. Siamo una chiesa molto antica, apostolica, di rito caldeo. La lingua dei cristiani iracheni è l'aramaico. Come in tutto il Medioriente, il cristianesimo esisteva molto prima della nascita e dell'espansione dell'Islam che ha dato alla nostra chiesa moltissimi martiri.
Il martirio dei cristiani prosegue...
Purtroppo si. I terroristi islamici sono entrati nel nostro villaggio il 6 agosto 2014. Per prima cosa hanno rotto le croci sopra le chiese e colpito le statue religiose, poi hanno seminato il terrore e ora il villaggio è deserto, vuoto. Purtroppo i villaggi musulmani vicini a noi si sono convertiti all'ISIS e nessuna famiglia ha ospitato i cristiani perseguitati. Ora non è rimasto nessuno, siamo tutti profughi, sparsi per il mondo.
Quali alternative avevate?
Davanti a uno jihadista ogni cristiano ha tre alternative. La prima è pagare la tassa per rimanere in vita, altrimenti tutte le sue cose diventano di proprietà islamica. Non esiste la proprietà privata dei cristiani. Se un musulmano vuole la tua casa, devi dargliela. La seconda alternativa è convertirsi all'Islam. La terza è scegliere di morire. Non ci sono altre possibilità.
Come decidere?
Quando hai la spada al collo non hai tempo di fare tanti calcoli o ragionamenti. Continui a pensare come hai pensato fino a quel momento. Se la tua fede è stata abituata ad essere vera e forte - non a parole ma nei fatti - quando il male arriva all'improvviso, sai subito come reagire, riesci ad ascoltare la voce della tua coscienza che suggerisce la cosa giusta da fare, anche a costo della vita. 
Qualche testimonianza?
Conosco famiglie benestanti che avrebbero avuto le possibilità di pagare la tassa per sopravvivere ma hanno preferito scappare piuttosto che vendere il corpo e l'anima. Molti altri fuggendo non hanno avuto il tempo di prendere niente, né soldi né vestiti. Ma hanno portato con sé la statuetta della Madonna. Nessuno ha detto loro di farlo, lo hanno fatto spontaneamente. Altri avrebbero potuto convertirsi e rimanere nelle loro case, ma non lo hanno fatto. Quando arriva la difficoltà non hai tempo di aspettare un ordine superiore che ti dica cosa fare. Istantaneamente si attiva la fede che dice al cuore come reagire. Vivere il Vangelo ti prepara a tutto: "Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un'altra" (Mt 10, 16-23). Tanti sono fuggiti, e dopo anni di studio e lavoro non hanno neanche un pezzo di carta per dimostrare che sono medici o ingegneri.
La fede dei tuoi parrocchiani profughi?
Una volta trovata una soluzione di appoggio, il primo pensiero dei miei parrocchiani è stato questo: la vita non finisce qui, anche se abbiamo perso tante cose importanti  come case, soldi, documenti, certificati di laurea, ricordi, affetti ecc. Sanno che la fede è fiducia in Dio, che Lui non abbandona nessuno, anche quando non vediamo, quando non capiamo, quando le cose non sono secondo la nostra volontà. La gente del mio villaggio non ha smesso di vivere. Tanti in questa situazione così difficile si sono sposati, hanno voluto assumersi la responsabilità del matrimonio. Altri hanno fatto la Prima Comunione, hanno conservato la gioia. E ringraziano Dio perché li ha preservati da un male peggiore.
Come si prega da perseguitati?
La preghiera è molto presente nella vita di un perseguitato. L'Eucarestia, affermano tanti profughi,è il momento che raduna i dispersi, è la cosa più cara che a tutti è rimasta. È il momento migliore per donare a Dio tutto ciò che è nell'intimo. La S.Messa è essenziale nella giornata. I nostri santi patroni sono rimasti nel villaggio, nella zona invasa dall'ISIS, ma le nostre feste continuano. Non smettiamo di esprimere la nostra fede attraverso la preghiera e di manifestare nella gioia la nostra speranza.
Gioia?
La fede va vissuta con gioia. Non posso dimenticare le attività sportive dei profughi, i giochi a gruppi che esaltano la speranza, come ad esempio "il ritorno a casa". Alcuni giovani avevano così tanta speranza che continuavano a studiare per gli esami anche dopo essere scappati. Inoltre, la fede va approfondita, dunque si è cercato di superare la ferita del terrorismo riscoprendo i valori del Catechismo, spiegato in una tenda fredda, calda o umida per la pioggia.
Anche nel terrore grazie, grazie, infinitamente grazie a Dio?
Si. I problemi ci rivoluzionano perché ci fanno capire che non possiamo vivere senza obiettivi: arriva un giorno e un'ora in cui se non hai la fede non puoi difendere veramente la tua vita. Noi profughi siamo salvi grazie alla fede che ci ha fatto dire "Dio, siamo tutti tuoi, guidaci tu dove vuoi, anche se oggi non abbiamo niente, soprattutto abbiamo te, e questo ci basta". Ora siamo dispersi in vari paesi, ma ci ritroviamo nella preghiera e anche su internet.
Cosa vi dite sui social network?
Alcuni scrivono "Grazie Signore perché siamo vivi, perché hanno distrutto le nostre chiese ma non la nostra fede, perché la nostra chiesa è dentro il nostro cuore, nessuno può cancellare la fede dal nostro cuore perché Dio è dentro di noi". Altri ancora sperano di tornare in Iraq e scrivono: "Quando torneremo al villaggio, prima di entrare nelle nostre case ci troveremo in parrocchia per la S.Messa". Quasi tutti dicono: "Don Karam, la cosa che più mi manca è la mia chiesa". I miei giovani scrivono "Anche se la nostra chiesa non è esteticamente bella come le chiese europee, non c'è una chiesa bella come la nostra parrocchia". Chi è benestante condivide che non avrebbe potuto cambiare fede perché chi lascia la fede in Dio è già morto. La scala dei valori in ordine di importanza infatti è questa: fede, famiglia, tutte le altre cose.
Cosa pensi del terrorismo in Occidente?
Penso che se una persona bussa alla porta di casa mia, prima di farlo entrare gli chiedo chi è, mi informo su di lui, su cosa faceva fino a ieri. Per la mia esperienza, quando l'Islam è in minoranza si parla di diritti umani, quando è in maggioranza no. Non mi risulta che nei paesi musulmani ci sia molto rispetto dei diritti umani, anche nel caso dell' "Islam moderato". Credo che l'Occidente debba fare molta attenzione e custodire l'ideale di uomo cristiano: l'uomo che rispetta l'umanità propria e altrui, l'uomo che è capace di solidarietà, di rispetto, di amore.
Come si fa ad amare in questi momenti?
La fede è carità, significa amare tutti, cristiani e non. La vita di tante famiglie cristiane è ferita, provata da uno spirito arrabbiato. Ma attraverso la fede anche la morte può diventare vita, come ai tempi di Gesù quando i morti tornavano in vita a causa della fede. Bisogna lavorare per amore degli altri, bisogna far giocare i bambini, non solo per dare dei servizi sociali o per eliminare la paura prodotta dall'ISIS, ma perché i bambini sono il futuro della Chiesa."

Erbil, una tenda per Porta Santa per i cristiani sfuggiti all’Isis

By SIR
Daniele Rocchi

Una tenda aperta come Porta Santa da varcare pregando per le proprie vite, per quelle dei propri cari e per l’Iraq. La comunità cattolica irachena si appresta a vivere il Giubileo della Misericordia da sfollata all’interno del proprio Paese. Persa Mosul, dove i terroristi dello Stato islamico (Isis) hanno cancellato una presenza più che millenaria, quasi disabitata la Piana di Ninive, dopo che l’estate scorsa 120mila cristiani furono costretti alla fuga dall’avanzata dell’Isis, la minoranza cristiana oggi conta meno di mezzo milione di fedeli, rispetto al milione e mezzo che era prima dell’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte degli americani e dei loro alleati. La maggior parte ora si trova nelle zone curde ritenute più sicure, a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, in particolare nel sobborgo cristiano di Ankawa. Qui sono al sicuro ma non hanno prospettive di sorta.

Nel ricordo dei martiri.

“La gente vorrebbe tornare nelle proprie città e villaggi ma ciò è semplicemente impossibile”, testimonia il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako che nella lettera pastorale intitolata “La Misericordia è il cammino del cristiano” esorta i fedeli a vivere il Giubileo nella memoria dei martiri come l’arcivescovo di Mosul, Paolo Faraj Rahho, i padri Raghid Ganni, Wassim e Thair e tanti fedeli che hanno perso la vita per la  loro fede. “Per noi cristiani dell’Iraq il martirio è il carisma della nostra Chiesa – spiega il Patriarca – in quanto minoranza siamo di fronte a difficoltà e sacrifici, ma siamo coscienti di essere testimoni di Cristo e ciò può significare arrivare al martirio”. Per Cristo, secondo Mar Sako, “bisogna andare sempre oltre, fino al sacrificio come hanno fatto i cristiani di Mosul e dei villaggi della piana di Ninive un anno fa. Sono per noi un onore e un segno di generosità. Per questo la porta della Misericordia deve essere sempre aperta!”.

Vivere concretamente la misericordia.

A Baghdad la Porta Santa sarà aperta dal patriarca Sako il 19 dicembre nella prima cattedrale del Paese, intitolata alla “Madonna Addolorata”, da poco restaurata e dove sono sepolti i patriarchi della chiesa irachena. Tanti gli eventi che la chiesa caldea ha proposto ai propri fedeli per prepararsi a vivere spiritualmente il Giubileo. Tra le iniziative future, invece, “la più importante – dice monsignor Basilio Yaldo, vescovo ausiliare del Patriarcato – sarà un pellegrinaggio a Ur dei caldei, la patria di Abramo. Chiederemo misericordia per i nostri rifugiati, non solo cristiani ma anche musulmani. Offriremo penitenze per chiedere il dono della pace per tutti e faremo gesti concreti. Per esempio a Natale daremo alle nostre famiglie più bisognose una piccola somma di denaro come gesto di vicinanza. Nelle chiese del Paese verranno aperte le Porte della Misericordia, per tutti, cristiani e musulmani”.  “Ho chiesto a tutti di vivere la misericordia per avere pace – sottolinea con forza il patriarca caldeo Sakosiamo per servire tutti, cristiani e musulmani, anche questa è la nostra missione che è un impegno assoluto”.
Vivere la misericordia oggi in Iraq significa “essere più attenti ai nostri fratelli e sorelle sofferenti, sfollati, emigrati, ai poveri, agli orfani e alle vedove, accompagnarli con tutto ciò che abbiamo come forza e denaro e dare loro segni di speranza. Dobbiamo mostrare amicizia, solidarietà e sostegno ai nostri fratelli musulmani, collaborare con loro per una vita in pace e in armonia. La nostra sofferenza comune diventa allora una forza affinché passi la tempesta”.

Aggrappati alla fede.

Ne sanno qualcosa le decine di migliaia di sfollati cristiani che vivono a Erbil. L’arcivescovo caldeo Bashar Matti Warda, aprirà la porta santa nella cattedrale di san Giuseppe, nel sobborgo cristiano di Ankawa, il 13 dicembre. “In questi mesi – racconta – abbiamo intrapreso un cammino di preparazione con tanti nostri fedeli rifugiati. Ogni settimana quattro ore di formazione. Essi hanno bisogno di supporto spirituale e materiale, hanno bisogno di pregare, di raccontare le loro storie, di rielaborare ciò che è accaduto per prendere coscienza della situazione in cui oggi si trovano. Hanno bisogno di tutto perché non hanno più nulla. Sono aggrappati alla fede in Cristo. Questa li sostiene e dà loro forza per andare avanti, nonostante tutto”.
 A rappresentare questa nuova condizione di vita è una tenda, l’unico riparo che hanno avuto dopo essere fuggiti.
Anche se oggi in tanti vivono in piccoli appartamenti e caravan, doni delle Chiese del mondo e del Governo curdo. Per questo, rivela monsignor Warda, “vorremmo ci fosse anche una tenda a rappresentare la Porta Santa della Misericordia”. Un desiderio che l’arcivescovo sta cercando di realizzare insieme a padre Douglas Al Bazi, sacerdote caldeo della diocesi, che in passato fu rapito e torturato da terroristi islamici. “Abbiamo una vocazione – ribadisce mons. Warda – testimoniare la gioia del Vangelo anche se viviamo in un Paese dilaniato dall’odio e dalla guerra. L’Anno Santo sarà un tempo di benedizioni”.

26 novembre 2015

Newly built church in refugee camp lifts Christians' spirits in Iraq


Photo by Amigos de Irak
The construction of a new church building in a Baghdad refugee camp has encouraged the camp's inhabitants, as they now have a place for worship and for activities during the week.
According to Amigos de Irak (Friends of Iraq), a project of the Institute of the Incarnate Word, the church, named for the Virgin Mary, was dedicated during a Nov. 13 Mass.
The Mass was said by Archbishop Jean Sleiman of Baghdad, and concelebrated by priests of the Institute of the Incarnate Word and representatives from the nunciature, the Domician community, and local churches.It was attended by Archbishop Ephrem Abba Mansoor of the Syriac Archeparchy of Baghdad, and by an Orthodox priest who is the refugee camp's general manager.
Archbishop Sleiman's homily reflected on “the suffering of refugees which will certainly not go unrewarded,” and following the Mass each family were given a picture of St. John Paul II.
The construction of the church was possible thanks to donations coming from different parts of the world and with help from the pontifical foundation Aid to the Church in Need.
Amigos de Irak commented that “building in Baghdad is very expensive, so we reused materials from the temporary camps where we received the refugees when the conflict began.” The engineer in charge of the project, Abu Rami, did not charge for his work, and also helped out with the purchase of some materials.
They explained that Mass will be said in the church on Saturdays and Sundays, and it will be used for other activities during the week.
“Because there are so many needs, we try to make the most of the resources we have. But that doesn't matter! It's like every work of God, poor but abundant in fruits! And everyone worked on it! The refugees who are enjoying it and you who made it possible,” they said.

Patriarca Sako: Iraq senza democrazia. Rapiti 36 civili


In Iraq, il sedicente Stato islamico ha preso in ostaggio 36 civili nei pressi di Shirqat, città nel nord del Paese. E mentre prosegue la lotta contro l’Is, sono ripresi i bombardamenti di Ankara nella zona irachena di Zakho vicino al confine tra il Kurdistan e la Turchia. In questo quadro, il Patriarca caldeo, Louis Raphael I Sako, ha detto che “in Iraq oggi non c’è traccia della tanto declamata democrazia” e “che attualmente non esiste in concreto nemmeno un piano per la Siria".
Massimiliano Menichetti ha parlato della situazione con Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali:

In Iraq, non possiamo parlare di democrazia anche se ci sono state elezioni. Queste erano necessarie ma non sono sufficienti per parlare di sistema democratico. Diciamo che abbiamo sostituito il potere della minoranza sunnita con il potere della maggioranza sciita, ma siamo ancora a livello della resa dei conti, delle vendette, cioè siamo ancora molto arretrati. In Iraq, adesso, praticamente il governo di Baghdad è sempre più legato con l’Iran: la zona a nord della zona curda è sostanzialmente indipendente e poi c’è tutta la zona desertica e delle paludi del sud, dove abitano i sunniti: questa è quella contestata e da cui si cerca di mandar via l’Is.

Come si gestisce questa frammentarietà? Cosa accadrà, dopo?
Ci sono alcuni che pensano a una spartizione, oppure alla creazione di nuovi Stati: Kurdistan, Sunnistan, ecc… C’è invece chi pensa semplicemente di creare delle zone sotto tutela delle potenze che avranno vinto la guerra, un po’ come accadde in Germania dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel complesso, però, secondo me in questa maniera si aprono dei vasi di Pandora gravi, perché sarebbe un processo difficile da interrompere e che moltiplicherebbe la conflittualità in Medio Oriente e in Africa.
Iraq e Siria sono legati: anche qui la situazione non sembra migliorare
La situazione è abbastanza chiara, secondo me: abbiamo tutta una serie di milizie divise tra loro, che combattono in genere contro Assad, tra loro e quasi tutte contro Daesh, ovvero il sedicente Stato islamico. Gli alleati esterni si collegano ognuno a una di queste milizie: gli americani sono più legati ai curdi, i turchi con i turcomanni e con alcune altre piccole milizie locali, i russi con gli alawiti e con il regime di al-Assad e così via...

Ma questo vuol dire che ognuno combatte una propria battaglia?
Praticamente sì. C’è un nemico comune teorico, che sono appunto Daesh e al Qaeda, ma in realtà questo nemico comune viene quasi in secondo piano, rispetto a tutte le altre azioni. Chi più si dedica a combattere questo nemico sono gli americani – adesso con i francesi, un po’ gli inglesi – ma dall’aria, con bombardamenti aerei. Tutti sono convinti che – checché ne dicano i russi – Assad, anche se restasse al potere, resterebbe al governo di una piccola porzione della Siria e che quindi noi andiamo anche qui verso una sorta di spartizione del Paese. E tutti si posizionano per avere la possibilità di ricavare una fetta più ampia di territorio siriano o anche siro-iracheno: perché anche l’Iran è coinvolto in questo pasticcio. L’Is, in tutto questo, non fa che fare più o meno lo stesso gioco, con l’aggravante di farlo in maniera particolarmente violenta.
Qual è la via, secondo lei?

La via è quella di un gruppo di contatto in cui ci si mette d’accordo politicamente e si conducono insieme le operazioni militari, possibilmente contro il sedicente Stato islamico, non contro tutti gli altri. Però, siamo ancora lontani da questo.
 

Stato Islamico: Sako (patriarca Baghdad) “si sconfigge con truppe di terra”

By SIR

 Un invito alla comunità internazionale ad agire in modo deciso contro l’Isis e a impegnarsi per l’instaurazione dello stato di diritto in Iraq e in Siria.
A rivolgerlo è il patriarca cattolico caldeo Louis Raphael Sako in questi giorni in Austria. Parlando all’agenzia “Kathpress”, il patriarca ha messo in guardia dall’accogliere con eccessiva ingenuità i profughi musulmani provenienti dal Medio Oriente. “Occorre vigilanza nei confronti dei terroristi e dell’insediamento di comunità parallele islamiche”, ha affermato.
Sugli attentati terroristici di Parigi, Mar Sako ha espresso il proprio sgomento ma non si è detto sorpreso, poiché “era chiaro che il terrorismo dell’Isis prima o poi avrebbe raggiunto anche l’Europa”. Nonostante ciò “l’Isis potrebbe essere facilmente sconfitto militarmente se la comunità internazionale degli Stati fosse unita. Ma ciò può avvenire solo con forze di terra. E si dovrebbero obbligare finalmente anche gli Stati arabi a far qualcosa. Chi consegna le armi all’Isis, chi compra il loro petrolio?”, si è chiesto provocatoriamente.
Ma c’è un altro fronte dove la guerra all’Isis deve essere totale, è quello dell’ideologia: “Le persone devono considerarsi sempre più cittadini di un Paese, anziché soprattutto membri di una religione o di una tribù”, ha affermato. “Per l’Islam ciò non si può ottenere senza riforme. Le autorità islamiche sono chiamate a intervenire in tal senso”.


Patriarch warnt Westen: Gegenüber Flüchtlingen nicht naiv sein

23 novembre 2015

Le campane di Alqosh, gli ultimi cristiani d’Iraq


Le campane di Alqosh, gli ultimi cristiani d’Iraq
L’associazione VERSO LA MESOPOTAMIA organizza per martedì 24 novembre 2015, ore 20,30, presso l’Oratorio S. Gabriele, via Pomerio, 15, Arco (Tn) il documentario sulla vita dei cristiani
“a 5 minuti dall’inferno dello stato islamico” di Roberto Spampinato.

Le campane di Alqosh, gli ultimi cristiani d’Iraq
L’incontro è per condividere il vissuto dei cristiani caldei di ALQOSH in IRAQ con la presenza di Padre Ghazwan Baho e riflettere sul problema delle migrazioni e della devastante guerra dell' ISIS.
Sarà un importante momento di conoscenza e solidarietà!
Roberto Spampinato, autore del documentario “Le Campane d’Alqosh” intervisterà Don Ghazwan Baho, Parroco di Alqosh.
Interverrà Anderious Oraha, giornalista iracheno, rifugiato politico in Italia, autore del libro Una storia irachena.
Chiuderà la serata il gruppo musicale BRB con l’anteprima dell’opera rock Quo vadis - storie di migranti con la partecipazione del musicista e cantante kurdo Serhat Akbal
Con il Patrocinio del Comune di Arco

SCARICA LA LOCANDINA:
  LOCANDINA ALQOSH [468,95 kB] 

Per info:
Anna Maria Parolari
Associazione " Verso la Mesopotamia" ARCO
anna.maria.parolari@alice.it
tel 330536339


l’Oratorio S. Gabriele, via Pomerio, 15, Arco (Tn)
Cell. 331 9498636
oratorio@parrocchiadiarco.it

The Assyrians of Paris

By AINA
Peter Ahern

The shocking terrorist strikes in Paris on the evening of November 13 have caught the attention of the world. While political leaders send expressions of condolence and support to President Hollande and his nation, individuals with friends and family in Paris have been clambering to seek assurances of their safety.
I am a frequent visitor to Paris where I spent time as a student. Some of my student friends were Assyrians who lived in the neighborhood of Sarcelles, where two thirds of France's 16000 Assyrians are resident.
The Assyrian community in France represents the result of two major waves of immigration. The first influx followed the genocide of Armenians, Assyrians and Greeks by the Ottomans during the First World War. This second major wave of arrivals is far more recent, with many fleeing Iraq and Syria over the last decade because of rising persecution by Islamic radical groups. For decades France has been a place of refuge for Assyrians seeking relief from oppression.
Assyrians in Sarcelles have a flourishing community organization, the Union des Assyro Chaldeens de France (UACF). Established in January 1996, the UACF had various locations until a new center was opened in May 2012. The UACF center maintains a well-stocked library, provides classes in modern Assyrian (neo-Aramaic), offers tutorial support to the community's schoolchildren, assists newly-arriving members of the community who are struggling with French to complete needed forms, and runs its own football club.
The UACF seeks to maintain the unique identity of the local Assyrian population, to provide support in a wide range of ways, and to facilitate warm relations with the French majority community. It has been a happy relationship, with none of the kinds of uncomfortable interactions that has marked the relationship between the native French community and the Muslim minority.
It is by a strange irony that the Assyrian community in Sarcelles finds itself living in proximity to significant Muslim populations in neighboring towns, reflecting the reality of their original homes in the Middle East.
The Coordinator of the UACF Center, Mr Max Yabas, said in interview that generally the relationship between local Assyrians and Muslims has been cordial. "We have friends and neighbors with all other communities, including Jews and Muslims", he said. "There has never been a problem between the Assyrian community in France and any other community."
However, overall the Assyrians of Paris have felt an erosion of their sense of safety and security in recent years. Mr Yabas explained: "We certainly do not feel as safe today in France as we did in the 1990s. There are now many jihadists in France. We have the impression of being invaded by people who are extremists who at any moment can do something stupid."
Assyrians are reminded on a daily basis of such feelings of insecurity by the increasingly visible presence of the military in the streets. "We have a very large Assyrian church here that meets for worship three times per day," explained Mr Yabas. "There are soldiers placed in front of it for protection, as also occurs with the synagogues. For several years now we have not felt secure, because of the rising power of extremists here in France."
The tragic events of this last weekend have triggered strong feelings among local Assyrians. "The entire Assyrian community is hugely disappointed and angry with the French Government," declared Mr Yabas. "Government inaction has resulted in the problems in Syria and Iraq coming to France. The French authorities have been entirely reactive, not proactive. They have not anticipated, but waited until the problems were on their doorstep."
The Assyrians of Paris have themselves been proactive in trying to raise awareness among the French authorities, according to Mr Yabas. "We made public protests last year. We have issued press statements warning of the dangers. But the Government has been inactive."
The Assyrians of Sarcelles live only a 20 minute train ride away from the 10th and 11th districts of Paris, where some of the attacks occurred. Mr Yabas said with relief "I am involved in the group coordinating the community response to the attacks. Fortunately no Assyrians seem to have been among the victims."
This is very good news for the Assyrian community. But much more needs to be done for the community to regain the confidence and security that it felt in decades past.

Gنardianes de la Fe: Spanish filmmaker documents abuse of Iraqi Christians

By Global Journalist
Nicole Osuna



If Aida had known the severity of the storm that was about to come down on Qaraqosh, she would have fled her home at the same time that most other Christians in the northern Iraqi city left. Qaraqosh, a settlement of about 50,000 that lies 20 miles east of Mosul in the province of Nineveh, has long been considered the capital of Iraq’s Christian minority.
But in August of last year, the Kurdish militia defending the town from the Islamic State withdrew. Tens of thousands of Iraqi Christians and other minority civilians evacuated, many of them in a desperate flight east towards Erbil, the capital of Iraq’s Kurdish region. But Aida and her family stayed behind, hoping the situation might improve.
Yet after ISIL fighters occupied the city, they were soon threatened with execution if they did not convert to Islam. After two weeks, her family was given the chance to leave. But as Aida was readying to depart Qaraqosh on a minibus, her three-year-old daughter Cristina was taken from her arms by a fighter from the Islamic State. When Aida refused to depart without her daughter, they threatened to kill her and her husband.  

Stories like Aida’s were what inspired Spanish filmmaker Alfredo Panadero to make the documentary “Guardians of Faith” with five colleagues. The group spent three weeks in Iraq’s Kurdish region interviewing Christian families forced from their homes.
Panadero spoke with Global Journalist’s Nicole Osuna about the making of the documentary.
Global Journalist: Why did you choose Iraq as the setting for the documentary?
Alfredo Panadero: We were very influenced by the testimony of Douglas Bazi, who is an Iraqi priest from Baghdad. He endured a kidnapping in 2006, in which he was tortured for nine days by a Shiite terrorist group. For five of those days he didn’t have anything to eat or drink … Iraq is a place where in the past year, Christians had to flee out of Mosul and other cities due to the spread of the Islamic State.The idea was to go where things were happening; we felt that there were many stories that had to be told.
GJ: Did you feel threatened at some point when you were filming?
Panadero: We were told to be very careful in terms of the places we were going and the people we were talking with, how much time we could spend on the streets. We were careful. But no, we went to two war fronts and there wasn’t an issue. We also went to an area outside the Kurdistan region that’s called  Kirkuk. It is a city where there are current cells of the Islamic State.
GJ: What effect do you think the Islamic State has had on the region you were in?
Panadero: First of all, I would like to say that as the days pass, I see less reasons to keep calling the group “ISIS” (Islamic State of Iraq and Syria). The group does not want to stay in Iraq and Syria, they are actually aiming for Europe and they have already started to attack Europe. They are truly aiming to affect Western society in general.
Daesh [an Arabic acronym for the Islamic State] has changed the lives of these people because they have been forced to flee to avoid having to renounce their Christian faith, which is an example of courage, profound coherence and faith. Many of these Christians continue trusting God and maintaining their faith. Nevertheless, it is true we met people who were in a very difficult physical and psychological state that have lost all hope and that want to leave their country.  
GJ: Do you think the stories you heard correspond with what’s been reported in international media outlets?
Panadero: To tell you the truth yes and no.
On June 10, 2014, [Spanish newspaper] El Mundo published that Muslims in the city of Mosul had opened the doors for the Islamic State – which is true – but what they failed to mention was that they also sold out the Christians living in the area. They went to Christian homes to threaten them by saying that if they didn’t leave they [the Christians] would be killed by Daesh or them [the Muslims]. I think that the issue is not sufficiently reported by international media outlets and what is reported is very superficial and doesn’t do justice to the current situation.

20 novembre 2015

A regional strategy to prevent and counter incitement to violence that could lead to atrocity crimes


The Chaldean Archbishop Habib Jajou joined thirty religious leaders during two days in Amman, Jordan between 11 and 12 November 2015 on behalf of his beatitude Mar Louis Sako the Chaldean Patriarch.
The leaders worked ‘to develop a regional strategy to prevent and counter “hate speech” and incitement, in particular incitement to hatred and violence. They committed to work individually and collectively to take the strategy forward.’
The meeting was organized by the United Nations Office on Genocide Prevention and the Responsibility to Protect, Columbia Global Centers | Middle East (Amman) and Columbia Global Freedom of Expression.
Below the leaders’ proposals as were published in the Columbia University Website:
• Establish a network of religious leaders from different religions and faiths to advise on and act to prevent and counter incidents of incitement in the region
• Increase the awareness of State authorities of the challenges and the measures that could be taken
• Invest in education, in general, and education of religious leaders, in particular
• Train religious leaders and inter-faith actors on the effective use of social media to reach a wider audience and multiply the impact of their messages
• Use intra and inter-faith dialogue to respond to acts of incitement
• Recruit and train youth ambassadors who can support and multiply initiatives through the social media
• Express solidarity with the victims of incitement to violence.
“The readiness of all religious leaders gathered here in Amman – who come from different countries and have different faiths and beliefs – to work together to deal with this challenge is truly impressive. I commend their commitment and their willingness to act, and look forward to seeing the results of this meeting,” noted Adama Dieng, United Nations Special Adviser on the Prevention of Genocide. “States are responsible for the protection of their populations, but everyone has a role to play. Given their spiritual leadership and influence, religious leaders have a special responsibility and their engagement is essential to prevent and counter incitement to violence that could lead to atrocity crimes”
“Religious leaders have clearly committed to play a fundamental role in responding, countering and preventing incitement to hatred that may lead to violence or discrimination. They have done so in recognition of the universal necessity to defend and protect believers of all faith, and non-believers; freedom of religion and equal citizenship. The discussions during these two days have highlighted the courage of those who take a stand to counter incitement to hatred, sometimes at great risks to their own lives or wellbeing. The outcome demonstrates well the importance of defending freedom of expression and increasing civic space to amplify the voices and impact of those who are at the front line in countering incitement to hatred” concluded Dr. Agnes Callamard, Director of Columbia Global Freedom of Expression.

«Se l’Occidente non reagisce, subirà una sorte peggiore di quella di noi cristiani iracheni» Leggi di Più: «Se l’Occidente non reagisce, subirà una sorte peggiore di quella di noi cristiani iracheni»

By Tempi
Leone Grotti

È stato per quattro anni vescovo di Mosul, dal 2010 al 2014. Poi è arrivato l’Isis. Cacciato dalla sua terra come tutti gli altri cristiani iracheni, ha vissuto da profugo in Kurdistan, a Erbil, fino a quando non è stato inviato a maggio a Sydney a dirigere l’eparchia cattolica caldea in Australia. Così, dopo aver conosciuto (fin dalla nascita) la società islamica, ora monsignor Amel Nona, 48 anni, ha avuto un assaggio della vita in una società occidentalizzata. Ecco perché è l’interlocutore perfetto per parlare della strage di Parigi, che ha messo in luce la crisi tanto dell’islam quanto dell’Occidente.
Nona, si aspettava un attacco a Parigi di queste proporzioni?
Certo che me lo aspettavo e l’ho anche predetto. Due settimane dopo essere stato cacciato da Mosul ho dichiarato in un’intervista: se l’Occidente non reagisce, subirà una sorte peggiore della nostra. Non poteva accadere altrimenti.
Perché?
All’inizio lo Stato islamico era composto da 1.000-2.000 uomini e poteva fare ben poco. Ma 30-40 paesi dell’Occidente, in modo per me inspiegabile, hanno permesso che conquistassero metà Siria e metà Iraq senza fare nulla.

Ci sono stati i bombardamenti.
Appunto, bombardare è come non fare niente. Lo Stato islamico è furbo, è abituato a vivere combattendo. La cosa incredibile è che neanche dopo l’attacco di Parigi agite: gli avete lasciato campo libero prima e ora continuate ad accettare che i paesi della Regione li finanzino e armino perché ci sono tanti interessi economici. Ci sono domande che non trovano risposta.
Quali domande?
Dov’erano i governi dell’Occidente quando migliaia di giovani entravano in Siria per combattere? Volete farci credere che le cose che in Iraq tutti vedevamo, in Occidente i governanti non le conoscevano? Non avete fatto niente, ma ora pagate tutto.
Lei è nato in Iraq e conosce l’islam da sempre. Come mai la religione di Maometto presta sempre il fianco a movimenti fondamentalisti?
Perché nel Corano ci sono versetti che istigano alla violenza: spiegano che tutti i non musulmani sono infedeli e bisogna ucciderli o convertirli all’islam. Il problema sta in quei versetti che dicono chiaramente queste cose. Definire un uomo “infedele” nella lingua araba è molto pericoloso. L’infedele infatti è considerato così inferiore che un musulmano può fare di lui ciò che vuole: ucciderlo, prendere sua moglie, confiscargli figli e proprietà.
Quindi non c’è speranza di vedere un cambiamento?
Bisognerebbe spiegare meglio questi versetti, darne una interpretazione moderna. Nel VII secolo, magari, servivano per una situazione particolare ma oggi non si può prenderli alla lettera. Il problema è questo.
L’idea di interpretare il Corano non va molto di moda nell’islam.
No, perché i musulmani vedono il Corano come una cosa eterna. Per loro non è una cosa scritta in un tempo preciso ma un testo eterno, che si trova da sempre con Dio in cielo, e che a un certo punto della storia è stato inviato a Maometto. Quindi i versetti non si possono spiegare o interpretare o passare al vaglio della ragione.
Un imam francese ha detto che l’islam di oggi sta vivendo una «crisi della ragione».
È vero ma non solo l’islam di oggi. Sono tanti gli intellettuali musulmani che lungo la storia di questa religione hanno cercato di interpretare alla luce della ragione il Corano. E tutti sono stati o perseguitati o uccisi.
I musulmani a Sydney sono diversi da quelli che ha conosciuto in Iraq?
Sì. I musulmani che stanno qui, come quelli che si trovano in America o Europa, sono molto più fondamentalisti. Quando arrivano nel mondo occidentale, infatti, si radicalizzano perché sentono che tutto il mondo e la modernità è contro la loro mentalità, contro l’islam. Perciò sono più aggressivi, più irascibili. Il problema non è pensare che la propria religione sia l’unica vera, ma volerla imporre con la violenza.
Dev’essere stato difficile passare da una società islamica a una occidentalizzata.
È tutto diverso. Qui c’è libertà di agire, pensare, parlare e tutte queste cose non esistono nella società islamica. Non dico nei paesi islamici, perché magari in alcune dittature laiche si vive più o meno bene e alcune libertà ci sono. Ma in sé la società musulmana veicola una mentalità unica e se una persona va contro quello che dice l’islam è considerato sbagliato. Anche qui però non è tutto rosa e fiori.
A che cosa si riferisce?
La società occidentale è in crisi ed è una crisi di valori. Voi state perdendo i valori fondamentali della vita e questo vi rende deboli, impauriti, assolutamente incapaci di affrontare una crisi grave come quella di oggi. I terroristi sono una minoranza, i musulmani nei vostri paesi anche, eppure vi stanno facendo paura.
Qual è la causa secondo lei?
State ripudiando i valori che hanno costruito la vostra società, i valori cristiani. Avete puntato tutto sulla libertà, che è e resta importante, ma senza la verità rimanete indifesi davanti a quello che sta succedendo. Non si possono ripudiare duemila anni di storia, preservando solamente la libertà, perché poi la conseguenza è che otto terroristi fanno un attentato e milioni di persone sono impaurite e non riescono a reagire.
Voi cristiani in Iraq siete sempre stati una minoranza. Avevate paura?
A Mosul c’erano 400 famiglie cristiane e tre milioni di musulmani. Tutta la società era contro di noi, aggressiva, piena di terroristi, piena di persone che volevano ucciderci. Ma noi eravamo felici perché avevamo la fede, che mostravamo con coraggio e gioia, e loro non potevano farci niente. Sì, ogni tanto uccidevano due o tre cristiani, ma ci rispettavano perché sentivano che eravamo forti, anche se pochi.
Cosa vi rendeva forti?
Noi sapevamo che con la fede si può andare incontro a tutto ed è quello che facevamo, con gioia affrontavamo ogni crisi. E i terroristi temevano e temono la nostra fede. I cristiani iracheni, con coraggio, hanno preferito perdere tutto, case, proprietà, terre, chiese, solo per un motivo: per non perdere la fede. E questo ai terroristi ha fatto male.
Se dovesse dire una cosa che manca alla società occidentale?
Direi che qui non c’è gioia, non c’è felicità. C’è la libertà ma non c’è nient’altro. Vi siete concentrati solo sulla libertà e avete perso tutto il resto. Anche la Chiesa, devo dire, dovrebbe essere più felice.
Lei ora vive in questa società. In Australia ci sono 50 mila cristiani caldei. Qual è il compito di un cristiano?
Mostrare che noi siamo felici nella nostra vita, dobbiamo essere più attivi nella nostra missione all’interno della società. Non bisogna solo cambiare mentalità, ma anche le leggi sbagliate. Penso che si possa fare molto.