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5 ottobre 2015

«Fuggendo da Mosul abbiamo perso tutto ma abbiamo salvato la fede»

By Roma Sette
Concita De Simone

«Siamo stati costretti dai guerriglieri dell’Isis ad andare via da Mosul nell’agosto dello scorso anno. La scelta era tra convertirci all’Islam, pagare le tasse per la protezione o essere schiavi. Ma noi siamo cresciuti nella terra di Abramo, abbiamo una storia antichissima e non potevamo rinnegare la nostra fede. Nella “notte nera” del 6 agosto, siamo fuggiti tutti prima in macchina, poi per oltre 6 ore a piedi, compresi bambini, donne incinte, anziani. C’erano tutti i cristiani della piana di Ninive. Non sapevamo dove ci saremmo fermati e, una volta arrivati a Erbil, nel Kurdistan iracheno, abbiamo dormito ovunque ci fosse spazio, per strada, sui marciapiedi, nei giardini. Abbiamo perso tutto, ma abbiamo salvato la nostra fede».
A tornare indietro con la memoria è monsignor Yohanna Petros Mouche, arcivescovo siro-cattolico di Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, ormai capitale dell’autoproclamato Califfato islamico, durante un incontro che si è tenuto ieri, domenica 4 ottobre, presso la parrocchia di San Pio da Pietrelcina, nel quartiere Giardino di Roma, a sud est della Capitale. Parla in arabo, monsignor Mouche, mentre il suo segretario don Majeed Hazem M. Attalla traduce, ma dice che la «lingua del cuore» arriva comunque. Quella stessa lingua che gli fa pronunciare oltre 40 volte la parola «fede» durante l’incontro organizzato dal Punto Acli famiglia del circolo San Pio. Ad ascoltarlo, circa un centinaio di persone, rimaste molto colpite dal pastore iracheno che non ha nascosto la sua desolazione per l’inadeguatezza delle misure adottate fino ad ora dalla comunità internazionale per fermare l’avanzata dell’Isis.
Monsignor Mouche vive in esilio da 14 mesi; negli ultimi tempi ha cominciato a viaggiare in Europa per richiamare l’attenzione sulla condizione in cui stanno vivendo i cristiani dell’Iraq e mettere in guardia l’Europa e non solo dal pericolo che si islamizzi tutto l’Occidente. Non usa mezzi termini quando parla degli Stati Uniti, che dovevano portare la pace già nel 2003, in occasione della seconda guerra del Golfo, e che invece non hanno fatto altro che «creare divisioni» all’interno del suo Paese. La diocesi di Mosul, riferisce, è molto antica: c’erano diverse chiese e cattedrali, di cui probabilmente l’Isis non ha lasciato traccia. Di sicuro si sono impossessati già nel luglio 2014 dell’antico monastero di Mar Behnam, a dieci minuti dalla città di Qaraqosh, in Iraq. «Di 12mila famiglie e oltre 51mila persone, non è rimasto nessuno in diocesi – ammette il presule -: molti si sono rifugiati in Kurdistan ma tanti stanno lasciando l’Iraq, non vogliono più vivere lì, perché non c’è lavoro. E così, con l’esodo dei fedeli, la Chiesa non esiste più. Allora, se non si riescono a liberare le nostre zone e farci tornare a casa, chiedo che almeno si trovi un posto dove riunire tutti i cristiani iracheni, non per sempre, ma almeno per un periodo. So che è difficile accogliere tutti, ma ci deve essere una soluzione. E chiedo anche ai vostri politici di fare qualcosa per noi».
Ogni volta che torna questo punto, sul governo iracheno che non si è mai presentato nei campi profughi, o sulla possibilità che ci si dimentichi di quello sta passando la sua gente, la voce di monsignor Mouche si fa più dura. Come un padre che ha a cuore il futuro dei suoi figli, così il vescovo iracheno chiede di non lasciarli soli nella loro quotidiana battaglia per la vita e di ricordarli nella preghiera. La parola poi passa a don Majeed, il primo prete profugo ordinato nei campi, durante l’esilio, lo scorso 3 gennaio. «Sognavo di essere ordinato a Quaraqosh, la mia diocesi, invece dopo aver studiato a Roma, sono tornato a casa e subito dopo sono stato costretto a fuggire». La sua testimonianza inizia con una carrellata di fatti sanguinosi, corredati da foto che i nostri media non ci hanno mai mostrato, e che risalgono a prima dell’arrivo dell’Isis. Ricorda padre Ragheed Ganni, il giovane sacerdote caldeo iracheno trucidato il 3 giugno del 2007 insieme a tre suddiaconi davanti alla porta della chiesa dello Spirito Santo a Mosul, e, prima di lui, il sacerdote siro ortodosso Paul Iskandar, rapito e ucciso sempre a Mosul. Poi l’autobomba del 3 maggio 2010 che ha colpito tre autobus che trasportavano studenti residenti nella città di Hamdaniya, 40 chilometri a est di Mosul, con un bilancio di due morti e 148 feriti, di cui alcuni molto gravi che hanno perso la vista o subìto amputazioni. E poi l’attentato nella chiesa di Sayyidat an-Najat, con 2 sacerdoti uccisi, uno mentre era in confessionale, l’altro sull’altare, e 47 fedeli trucidati.
«Eppure i cristiani iracheni non hanno mai perso la fede e le chiese sono sempre state piene – commenta don Majeed -. Guardiamo all’abbraccio di Gesù dalla croce e troviamo la speranza di andare avanti». E proprio la grande fede radicata nella storia del popolo iracheno, ha permesso ai cristiani di Mosul di non scoraggiarsi, anche quando è iniziato l’esilio, lo scorso anno. «Siamo stati le prime due settimane senza niente, poi sono arrivate le tende. Nei campi con 650 famiglie, 2.400 persone e due bagni. File per il cibo, file per andare in bagno. Ma le Messe si celebravano ogni giorno e ogni giorno riuscivamo a recitare il rosario e a leggere la Parola di Dio tutti insieme», racconta il sacerdote. All’inizio c’erano i campi con le tende, «oggi – continua – abbiamo i prefabbricati, 3 metri per 2,5 con almeno cinque persone che dormono e mangiano lì, senza acqua corrente e senza elettricità. Quest’anno abbiamo avuto una temperatura di 55 gradi e quando è iniziato a piovere siamo stati allagati. Per quanto tempo potremo vivere così? Qualcuno è riuscito ad affittare una casa, ma il costo è carissimo, più di Roma: circa 1.700 dollari al mese. La gente è stanca, non perde la fede ma non vuole più vivere nei campi prefabbricati. Avevamo cattedrali e ora celebriamo sotto una tenda, ma ringraziamo Dio di essere vivi. E anche nei campi profughi c’è vita: quest’anno abbiamo fatto 553 prime comunioni, 656 battesimi e 410 matrimoni».
L’ultimo appello dell’arcivescovo è per i padri sinodali, che non dimentichino le famiglie irachene. «La vita nei prefabbricati o nei caravan non aiuta le famiglie, crea problemi interni. La convivenza in tanti in spazi piccoli è difficile. La famiglia che non ha una casa non è tranquilla. Come non lo sono un papà con le tasche vuote o una mamma che non ha soldi per comprare medicine per il figlio malato. Che il Sinodo serva a richiamare l’attenzione anche su di noi, a ridare dignità alle nostre famiglie». Famiglie che, sottolinea in chiusura il parroco don Alfio Tirrò, «ci insegnano a educare i figli nella fede, a costo della vita».