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23 ottobre 2015

Cristiani in Iraq: non è persecuzione. È genocidio

By Vita
Martino Pillitteri

«Le difficoltà sono immense, il rischio altissimo. Ma il nostro spirito è alto e non perdiamo mai la speranza. Il mondo cristiano in Iraq sta facendo un lavoro incredibile per tenere unita la comunità, per trattenerla nel paese, per mantenere viva la propria identità. Ma è difficile convincere una famiglia a rimanere in Iraq. Quando ci provi, le loro argomentazioni battono le mie». È realista e battagliero Bashar Warsa, Arcivescovo caldeo di Erbil nel Kurdistan iracheno.
Incontrato da Vita.it a Bruxelles presso la sede del Comece ( Commission of the Bishops' Conferences of the European Community) l’arcivescovo ha fatto il punto sulla situazione dei cristiani iracheni, e su come il network delle Chiese locali nell’Iraq del nord si sta impegnando per gestire le esigenze di migliaia di profughi. Negli ultimi 15 mesi, circa 125 mila cristiani nelle aree adiacenti a Mosul e la piana di Ninive sono stati costretti ad abbandonare le loro case a causa dell’espansione dello stato islamico. Tra le famiglie in cerca di rifugio o di un alloggio anche tanti musulmani.
«Stiamo facendo tanto per chi ha lasciato le proprie case. E non parlo solo pe i cristiani. Noi aiutiamo tutti anche i musulmani e gli yazidi. Senza l’intervento della Chiesa nel fornire alloggi, cibo, servizi sanitari ed educativi, la situazione in Iraq sarebbe più disastrosa di quello che è attualmente».
Secondo i dati che ci ha fornito Caritas Belgio la partership solidale delle chiese irachene copre l’affitto delle case per 2294 famiglie nelle zone di Ozal, Knajan, Dewaza e Nesh mentre 2700 famiglie nel villaggio di Ankawa vivono in roulotte fornite dalla Chiesa. Grazie all’intervento delle Chiese, sono state costruite 9 scuole (ad altre 4 grazie ad altre associazioni cattoliche) e health centers, centri di cura e di servizi sanitari frequentati da 2200 persone al mese. Il costo mensile delle medicine è di 42 mila dollari. Ogni giorno vengono distribuite confezioni alimentari a 13500 persone.
«I soldi, che sono stati messi in un fondo chiamato ICA (Iraqi Christian Aid) sono stati raccolti grazie a donazioni elargite da benefattori sparsi in tutto il mondo. Ma molto resta ancora da fare e da investire. Per esempio abbiamo bisogno di 2 milioni e mezzo per coprire il costo degli affitti fino a 30 giugno 2016. Ci ha dato una grossa mano anche la Caritas italiana. Don Roberto è venuto a trovarci; dall'Italia non ci fanno mancare il loro contributo. In tanti ci stanno auitando a costruire un ambiente dignitoso e sicuro che possa convincere le persone a rimanere in Iraq. Sappiamo che è difficile vincere la loro fiducia. I motivi per andarsene sono superiori a quelli per rimanere. Ma almeno facciamo bene la nostra parte, la gente ci pensa due volte prima di partire. Già quello è un successo. Riscontro che, oltre le tante famiglie che lasciano l’Iraq, ce ne sono almeno 10 al mese che tornano perché non ce l’hanno fatta a stabilizzarsi nei paesi limitrofi».
Parlando di famiglie, Warda non nasconde che in molte zone la gente non si fida neppure del proprio vicino di casa. « Mi dispiace ammetterlo, ma ci sono persone non affiliate con l'Isis che sequestrano persino il loro vicino di casa per estorcere dei soldi. Nonostante tutto, noto che i cristiani non si stanno vendicando. La vendetta non è nel DNA della nostra comunità. Tuttavia, l’Isis si deve combattere anche con la forza. Il dialogo e la diplomazia non servono. Non ti ascoltano. L’intervento militare è una parte della soluzione».

Genocidio

Non usa giri di parole per definire quello che è successo ai cristiani in Iraq. «E’ un genocidio, punto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome. L’Europa e le istituzioni come l’Onu non l’hanno compreso. Credo che l’opinione pubblica mondiale si renderà conto di quello che accade in Iraq quando le istituzioni come Onu e Eu adotteranno termini come genocidio e crimini contro l’umanità nelle loro discussioni e nelle letture degli eventi. Lo scorso dicembre ho incontrato l’alto commissario per la politica estera europea Federica Mogherini. Mi ha detto che avrebbe portato le mie istanze e preoccupazioni a Bruxelles. Ad oggi non mi risulta che abbia iniziato un processo o messo in moto qualcosa. Comunque, ho in agenda un incontro con il suo staff tra poche ore. Vediamo quello che succede».
Termino la chiacchierata con questa domanda: Teme per la sua vita? «Si, molto. Ma non faccio nulla per proteggermi. Se vogliono farmi fuori lo possono fare con molta facilità indipendente dalle precauzioni e dalla protezione».