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7 settembre 2015

Cristiani iracheni: canne piegate, ma ancora vive

Maria Teresa Pontara Pederiva

«Noi cristiani abbiamo una vocazione: la pace, l’apertura, l’amore, il perdono, il dialogo, il lavoro insieme per una vita migliore». Richiamano da vicino le parole pronunciate sabato dall’arcivescovo di Vienna al confine ungherese, queste del patriarca caldeo Louis Raphaël Sako, alla guida della comunità cristiana che vive oggi una delle situazioni più drammatiche della sua storia.
Eppure, anche in questo momento di estrema difficoltà (che potrebbe anche veder azzerata la presenza cristiana nella regione siriana), il patriarca non cessa di seminare speranza, e non solo tra i suoi fedeli: un continuo tentativo di dialogo e costruzione di ponti persino dove la sponda sembra troppo lontana.
Perché grande è la fiducia del pastore nella sua gente:  «Da noi i cristiani sono molto attaccati alla loro fede e alla Chiesa. Anche quelli che non vanno a messa per motivi di lavoro o per qualsiasi altra ragione. In Iraq è semplicemente impensabile rinnegare la propria fede. Fa parte dell’identità della persona».
Una comunità, segnata dal martirio fin dalla sua costituzione, costretta a tradurre il Vangelo nella concretezza quotidiana, tanto che il breviario caldeo recita due volte al giorno gli inni per i martiri, ma nelle chiese non si trova il Cristo sulla croce, perché pensano già alla risurrezione. «La fede da noi non è speculativa, è una questione d’amore e di attaccamento alla persona di Cristo, che ci impegna veramente». 
Le riflessioni del patriarca di Baghdad – contenute in un libro-intervista di Laurence Desjoyaux del settimanale francese La Vie, esperta di questioni mediorientali – prendono le mosse dalla storia passata e recente del suo Paese: sono le parole di chi denuncia i tanti errori commessi anche dall’Occidente, e non sempre in buona fede, ma nello stesso tempo riconosce il sostegno ricevuto, in particolare quello della Francia, conferenza episcopale, governo e presidenza. E poi papa Francesco intervenuto spesso di persona: «Mi ha telefonato, mi ha incoraggiato ad aiutare questi rifugiati e ad essere presente vicino a loro».
E’ un lungo rosario doloroso quello tracciato da Sako, direttamente coinvolto fin da bambino perché originario di Mosul, salita tragicamente alla ribalta in questi mesi per le violenze dell’ISIS («li paragono alla bestia dell’Apocalisse»), ma che già nel 1959 aveva vissuto giorni drammatici durante la rivolta del colonnello Shawaf  e poi la guerra contro l’Iran, quella del Kuwait ...  «I cristiani hanno perso molti bambini. Le famiglie sono ferite. Nel corso degli ultimi 50 anni, non ce n’è una sola che non abbia un membro ucciso in guerra o assassinato», spiega puntando il dito contro un Occidente che avrebbe dovuto accorgersi da più di 20 anni di una situazione di conflitto in continua escalation, che mieteva vittime innocenti, mentre dalle portaerei partivano i bombardieri che seminavano morte nell’indifferenza pressoché totale dei cittadini del mondo che aveva solo sete di petrolio. E qui il patriarca rivela un dubbio che dovrebbe impedirci il sonno: quello della «guerra alternativa» («non faccio la guerra io stesso, ma spingo altri a farlo al mio posto, per soddisfare i miei interessi»), perché è una terribile realtà che la «loro» guerra alimenti un «nostro» fiorente commercio di armi …
In questa situazione non sarebbe meglio che i cristiani lasciassero l’Iraq? «I cristiani sono stanchi di tutti questi conflitti che durano da anni – risponde il patriarca – davanti a tali sofferenze e di fronte a questa instabilità, alcuni sacerdoti e intellettuali ritengono che qui in Iraq non abbiamo più un futuro insieme e che dobbiamo trovare un altro luogo dove vivere in pace ed essere liberi e sicuri». Ma non è questa la soluzione perché sarebbe utopia compiere un esodo di massa (qualcuno ipotizza di costruire una nuova Qaraqosh in terra francese o americana …). E poi «La terra sono io, la mia identità, la mia storia, il mio futuro, la mia terra promessa».

Eppure dall’agosto 2014 le partenze si sono intensificate a ritmo incalzante ed esiste davvero il rischio, come denunciava alla fine di luglio il New York Times, che la presenza cristiana stia scomparendo: «Ne sono estremamente cosciente e penso che forse sono l’ultimo patriarca a vivere in Iraq». Eppure Sako (facile bersaglio anche per i terroristi) continua la sua missione instancabile di pastore in mezzo alla sua gente, quelle «canne di Dio» che si piegano sotto le prove, ma che non rinnegano la loro fede, come spiegava il papa nel suo videomessaggio proiettato a Erbil il 6 dicembre, giorno della grande processione dedicata a Maria.