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22 aprile 2015

Quei cristiani iracheni (in fuga) che denunciano l'islam politico

By Il Foglio
Maurizio Stefanini

“I cristiani caldei e assiri si chiamano così anche perché sono orgogliosi di discendere dagli antichi popoli della Mesopotamia. Per questo parlano ancora l’aramaico e conservano le vestigia dell’antica Assiria. Quelle vestigia che invece lo Stato islamico si vanta di distruggere, mostrando le rovine in video. Così come mostra in video il modo in cui sta distruggendo i cristiani”.
A presentare all’Università Santa Croce un gruppo di 38 cattolici iracheni rifugiati in Francia e in pellegrinaggio a Roma e a Assisi è stato Francesco Cutino, a nome di “Giona è in cammino”, onlus che appunto si propone si assistere i cristiani d’Oriente perseguitati.
Giona dal nome del Profeta che andò a predicare nella città di Ninive, dopo essere stato inghiottito e vomitato da una balena. Storico centro di insediamento del cristianesimo mesopotamico, la Piana di Ninive – nell'odierno stato dell'Iraq – è stata il teatro delle più feroci imprese degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. E oggi molti cristiani chiedono che proprio la Piana di Ninive sia trasformata in zona di rifugio sotto tutela internazionale, per evitare che la loro fede sia definitivamente spazzata via dalla regione in cui nacque.
 "C’erano un milione e mezzo di cristiani in Iraq prima del 2003, adesso non ne rimangono più di 300.000”, dice padre Rebwar Audish Basa, procuratore generale dell'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei Caldei e accompagnatore dei pellegrini. Nella Piana di Ninive ne è rimasto solo qualche migliaio a Erbil. “Il monastero di San Giorgio, dove io ho studiato, è stato trasformato in un carcere. Hanno tolto le croci, hanno devastato il cimitero in cui erano stati sepolti tanti giovani cristiani morti per la patria irachena durante la guerra contro l’Iran”.
Le storie raccontate da questa quarantina di cristiani sono una più terribile dell’altra. Cutino, che è psicoterapeuta, ricorda una donna profuga dall’Iraq ospite delle Suore di Madre Teresa in Libano. “Non parlava più, dopo mesi finalmente una donna anziana nel vedere il modo in cui guardava il Presepe le diede il bambinello in mano. Lei scoppiò a piangere e recuperò la parola, raccontando di come le avevano portato via il figlio”. “Se torno in Iraq, mi rapiscono mio figlio e mi chiedono uno sproposito per riscatto”, racconta uno dei rifugiati. “Quando sono iniziati i problemi e me ne sono andato, i miei parenti mi dicevano che sbagliavo. Adesso stanno in camper dopo aver perso tutto. Mi chiedono con ansia di aiutarli a uscire”, spiega un altro. Un terzo racconta di quando andò a una messa serale che fu attaccata da un kamikaze. La moglie fu uccisa, la figlia ferita, lui si salvò perché essendo suddiacono si trovava più in avanti. “Preferiamo andarcene che perdere la fede. Per noi la fede è tutto”, proclama un quarto. Commenta Padre Rebwar: “Se i cristiani avessero accettato di convertirsi all’Islam avrebbero avuto favori di tutti i tipi, anche soltanto per una questione di propaganda. Ma hanno preferito lasciare tutto piuttosto che perdere quella che per loro era la cosa più importante”.
Sperano che il governo iracheno possa presto sconfiggere lo Stato islamico? “I soldati del governo iracheno sono scappati di fronte all’Isis in cinque minuti”, risponde Padre Rebwar. “E poi in Iraq in questo momento di governi ce ne sono almeno quattro: quello dello Stato islamico, quello curdo, quello sciita, quello centrale. Che è quello che conta di meno”. Alcuni cristiani hanno ora iniziato a armarsi. “Un gesto simbolico importante, ma appunto solo simbolico. Sono qualche decina: non possono sconfiggere lo Stato islamico da soli”. Alcuni dei rifugiati del gruppo sono ormai in Francia da 8 anni. “Le cose per i cristiani hanno iniziato a mettersi male da molto prima che comparisse l’Isis”. Ma tutti dicono di voler tornare in Iraq, se se ne presentano le condizioni. “Chiediamo che l’Europa ci garantisca una zona di rifugio nella piana di Ninive”. Stessa richiesta che fa il più giovane del gruppo: un ragazzo che è l’unico a parlare in francese e non in aramaico. E aggiunge: “Il problema non è soltanto lo Stato islamico. In Francia vivo gomito a gomito con i musulmani, e al di là della facciata sotto sotto quasi tutti pensano che i cristiani sono nemici da spazzar via”.
“Un tabù che in Francia è difficile affrontare, ma che fa affrontato”, commenta Padre Rebawr: “Noi cristiani facciamo sempre i buoni, ma non può essere una cosa a senso unico. I genitori quando devono educare i figli non possono sempre fare i buoni: ogni tanto bisogna anche essere severi. Anche noi dobbiamo essere severi con i musulmani che in Occidente chiedono diritti ma poi, dove sono maggioranza, diventano sempre più oppressivi verso le minoranze. Non è solo l’Isis: pensiamo ai paesi musulmani dove non si può costruire una chiesa, a quelli in cui è perfino proibito alle donne guidare”.