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30 gennaio 2015

Prove di scisma nella Chiesa caldea

Gianni Valente

L’appuntamento è fissato a Baghdad, per il prossimo 7 febbraio. Il Patriarca Louis Raphael I Sako ha convocato per quel giorno nella capitale irachena un Sinodo straordinario dei vescovi della Chiesa caldea, che seguirà la consacrazione di due nuovi vescovi e si preannuncia come una resa dei conti. All’ordine del giorno c’è il braccio di ferro che contrappone da tempo il Patriarca a vescovi e settori della diaspora caldea del Nordamerica. Una contesa dagli effetti potenzialmente devastanti, in un tempo in cui i problemi e le emergenze che stravolgono il Medio Oriente stanno accelerando la fuga dei cristiani autoctoni dalle terre dell’antica Babilonia.
Il casus belli è rappresentato dal gruppo di sacerdoti e monaci che nel corso degli ultimi anni avevano lasciato le proprie diocesi malmesse e le proprie case religiose in Iraq senza il permesso dei superiori e si erano trasferiti negli Usa e in altri Paesi occidentali, a ingrossare le file delle più opulente diocesi della diaspora caldea. Lo scorso ottobre, il Patriarca aveva pubblicato un decreto per in cui ordinava loro di rientrare alla base o di concordare con  vescovi e  capi delle comunità la regolarizzazione del proprio trasferimento. Il mancato accoglimento  delle disposizioni patriarcali avrebbe fatto scattare misure canoniche disciplinari come la sospensione dal servizio sacerdotale e l’annullamento di ogni forma di retribuzione. Ma a tutt'oggi, nella maggior parte dei casi, le indicazioni del Patriarca sono cadute nel vuoto. E i sacerdoti e religiosi trasferitisi in Usa senza consenso hanno trovato l’appoggio del vescovo Sarhad Jammo, titolare dell'eparchia di San Pietro dei Caldei, con sede a San Diego, in California.
La resistenza alle disposizioni patriarcali ha assunto anche i caratteri della disputa teologica e canonistica. Il vescovo Jammo ha fatto appello ai canoni  del Codice che limitano territorialmente la validità degli atti disciplinari disposti dal Patriarca, e da vescovo cattolico ha rivendicato di dover rispondere solo al Papa, e non al patriarcato. Poi, nelle ultime settimane, i media Usa con base in California hanno rilanciato le voci secondo cui la causa dei “chierici vaganti” avrebbe trovato sponsor anche a Roma: secondo il Los Angeles Times, un loro ricorso alla Santa Sede avrebbe avuto esito positivo, e lo stesso Papa Francesco, con una «decisione dirimente», avrebbe di fatto azzerato le disposizioni patriarcali, stabilizzando i sacerdoti e i religiosi caldei coinvolti nel lavoro pastorale nelle diocesi Usa e annullando per loro l’obbligo di tornare in Medio Oriente. «Dirmi di tornare in Iraq equivale a dirmi: vai e suicìdati», ha affermato padre Noel Gorgis, operante nella parrocchia caldea de El Cajon, che in un’accorata intervista tv ha assunto i panni della vittima di ordini sconsiderati di chi vorrebbe costringerlo al martirio, spingendolo a tornare nelle terre insanguinate dalle scorribande jihadiste. Per di più, sui media Usa anche l’accusa di insubordinazione è stata rovesciata sul Patriarca e sulla sua ventilata intenzione di non rispettare le presunte indicazioni inviate dal Papa.
Le indiscrezioni fatte filtrare sui media californiani sembrerebbero delineare scenari controversi, con implicazioni sconvenienti anche dal punto di vista ecumenico: se il vescovo di Roma davvero interviene d'autorità a annullare le misure disciplinari disposte da un Patriarca cattolico, i primi a fregarsi le mani sarebbero quei settori delle Chiese d’Oriente separate da Roma che continuano a denunciare l’ecumenismo come strumento subdolo del perdurante dispotismo “papista”.
In realtà, finora, non c'è stata nessuna sconfessione papale agli ordini del Patriarca. Piuttosto, nel clima esasperato della controversia, anche l'intervento “romano” è stato fatto filtrare sui media in forma parziale e fuorviante. Da Roma, prima di Natale, è stata la Congregazione vaticana per le Chiese orientali a inviare una lettera, firmata dal cardinale Prefetto Leonardo Sandri, per esprimere l'invito a una composizione fraterna e ragionevole della controversia, autorizzando pro tempore i sacerdoti colpiti dalle misure disciplinari a rimanere negli Usa e celebrare messa per assicurare il normale svolgimento delle celebrazioni liturgiche, in attesa di una soluzione definitiva del caso.
Il sinodo convocato a Baghdad a febbraio è chiamato a sciogliere i nodi e a verificare la compattezza dell’episcopato caldeo intorno al Patriarca, in uno scenario segnato da una polarizzazione esasperata. A giudizio di Louis Raphael I, l’unica soluzione praticabile passa attraverso le dimissioni del vescovo Jammo. Quest’ultimo, probabilmente, non si presenterà all’assemblea sinodale, dopo aver già disertato le assemblee sinodali del 2013 e del 2014 ed essersi rifiutato di applicare il nuovo messale approvato dal Sinodo. A quel punto, la Santa Sede potrebbe essere chiamata a intervenire. «Io spero che il Vaticano appoggi la linea del Patriarcato. Se così non sarà, per la Chiesa Caldea sarà la fine» ha dichiarato il Patriarca in un’intervista al website Baghdadhope, annunciando anche che in caso contrario sarà lui a rinunciare alla carica patriarcale «che non avrebbe più nessun senso, se non quello di un titolo onorifico cui non tengo».
In ogni caso, la controversia ha messo in rilievo fragilità e punti di sofferenza che da tempo segnano il cammino della Chiesa caldea. Richiamando l’attenzione anche sul rapporto problematico che molte Chiese d'Oriente vivono con le rispettive comunità in diaspora, spesso influenti e più dotate di mezzi anche finanziari.
I sacerdoti e i religiosi trasmigrati in Occidente senza autorizzazione, portando talvolta con sé i rispettivi clan familiari, in alcuni casi si sono presentati come persone costrette a scegliere tra la disobbedienza e la morte certa. Una auto-giustificazione che trova facili sponde negli allarmi indistinti e sommari sulla sorte dei cristiani nei Paesi del Medio Oriente. Ma che suona come una forzatura vittimista e offensiva verso tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose che continuano a servire il loro popolo nelle chiese, nelle case e nelle tende dei campi profughi. «Attualmente», ha riferito il Patriarca Louis Raphael nell’intervista citata, «in Iraq vivono circa 400mila cristiani di cui più della metà caldei, e questi ultimi possono contare su 75 sacerdoti diocesani e 15 monaci. Una realtà in sofferenza, visti gli avvenimenti degli ultimi anni, che ha bisogno di tutte le forze che la Chiesa può mettere in campo. Un sacerdote o un monaco che fugge non solo dà un cattivo esempio, ma nega ai fedeli in Patria quel conforto morale e spirituale che oggi è più che mai necessario».

Appello del Papa: soluzione negoziata per tragedia immensa Iraq e Siria

By Radiovaticana

La guerra in Iraq e Siria è un’immensa tragedia che ha bisogno di una soluzione negoziata urgente: è quanto ha detto Papa Francesco incontrando in Vaticano i membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali.
Il servizio di Sergio Centofanti:


Soluzione a conflitto estenuante
Un incontro fraterno che si è svolto sullo sfondo delle drammatiche notizie che continuano a giungere dalla regione. “In questo momento, in maniera particolare – ha affermato Papa Francesco - noi condividiamo la costernazione e il dolore per quanto accade in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria”
“Ricordo tutti gli abitanti della regione, compresi i nostri fratelli cristiani e molte minoranze, che vivono le conseguenze di un estenuante conflitto. Insieme a voi prego ogni giorno affinché si trovi presto una soluzione negoziata, supplicando la bontà e la pietà di Dio per quanti sono colpiti da questa immensa tragedia”.


Cristiani al servizio della pace e della giustizia
“Tutti i cristiani – ha proseguito il Papa - sono chiamati a lavorare insieme in mutua accettazione e fiducia per servire la causa della pace e della giustizia”
“Possano l’intercessione e l’esempio di molti martiri e santi, che hanno dato coraggiosa testimonianza di Cristo in tutte le nostre Chiese, sostenere e rafforzare voi e le vostre comunità cristiane”.


Lavoro della Commissione per il dialogo teologico
Papa Francesco ha quindi espresso la sua gratitudine per il lavoro della Commissione, iniziato nel gennaio del 2003, e che negli ultimi dieci anni, “seguendo una prospettiva storica, ha esaminato le strade attraverso cui le Chiese hanno espresso la loro comunione nei primi secoli, e che cosa questo significhi per la nostra ricerca della comunione oggi”. Durante l’incontro di questa settimana, è stato avviato anche un approfondimento sulla natura dei Sacramenti, in particolare del Battesimo. L’auspicio del Papa è che “il lavoro compiuto possa portare frutti abbondanti per la comune ricerca teologica e aiutarci a vivere in maniera sempre più profonda la nostra fraterna amicizia”.
Infine, il Pontefice ha ricordato “con vivo apprezzamento” l’impegno ispiratore per il dialogo del Patriarca della Chiesa Siro Ortodossa di Antiochia e di tutto l’Oriente, Ignazio Zakka Iwas, morto lo scorso anno: “Mi unisco alla preghiera di voi tutti, del clero e dei fedeli di questo zelante servitore di Dio, chiedendo per la sua anima l’eterna gioia”.


Quali sono le Chiese Ortodosse Orientali
Le Chiese Ortodosse Orientali sono quelle che hanno accettato solo i primi tre Concili ecumenici (di Nicea, Costantinopoli ed Efeso). Sono in tutto sei: Patriarcato copto ortodosso d’Egitto; Patriarcato siro ortodosso d’Antiochia e di tutto l’Oriente, Damasco; Chiesa Apostolica Armena: Sede di Etchmiadzine, Armenia – Catholicossato di Antelias, Libano; Chiesa ortodossa d’Etiopia; Chiesa ortodossa di Eritrea; Chiesa ortodossa sira del Malankar.

Patriarchal message in the occasion of two-year anniversary of my service


Patriarchal message in the occasion of two-year anniversary of my service

By Chaldean Patriarchate

Beloved daughters and sons of the Chaldean Church, I would like to extend to you a message, in order to mark the second anniversary of the "Cross, which I carry, together with many other brothers and sisters". I want to express my full love to you, those belonging to the Chaldean Church, and to all Iraqis of all faiths and affiliations.
During the past two years I have learned a lot from many of you, and I got to know many people. I have suffered a lot, and I have also benefited from the criticism, (lessons to learn). 
First of all I want to thank all of those who contributed to my learning, for their understanding and their support for what was much accomplished and for the many doors of enlightenment were opened!
What happened –within our Chaldean Community Church- is the natural evolution of the Patriarchal succession, of carrying special existing circumstances of the times and present. The situation has coincided with the acceleration of events in the Iraqi arena and the region, such as comprised displacements, persecutions and emigration. There was no other way but to deal frankly if not squarely with the old and new serious circumstances; the situations in our Church were influenced by intellectual short sightedness, by a lack of spirituality and legal ethic, as well as by inappropriate upbringing.  This was also triggered by a bizarre temper and human nature as well as by personal ambitions. We cannot exclude the local inheritance of certain concepts of power, which still reside in some persons from a certain unfortunate sense of tribal superiority and domination, with such mental stance happening instead of projecting a humble, faithful and generous ministry. However, we will persevere in adhering to Evangelical principles and Christian Hope; to transform our Chaldean church in a unified church together with its Clergy and faithful followers.  We want this Chaldean Church to be neat and disciplined, powerful, influential but open to get influenced while carrying the principles of charity and transparency, respect for talents and diversity, searching for continuous betterment, and refusing a monolithic or single perspective, individually created here and there which can wrongly isolate entities in their attitude. The church is not a matter  to gamble and isolation suicides!
Our Identity comprises A Universal Chaldean Catholic Church, a joyful mission and a witness to the Gospel for the world of today. This Church is not to follow exclusively behind nationalist, political or partisan acts because it would make the Church lose its Christian ecclesiastic identity! Thus we reassure everyone that these difficulties, challenges and pressures which we are facing, will not stop us from cleaning and regenerating the Chaldean Church. Therefor we will adjust its laws according to the canonical criteria and we will strengthen them as the Lord wants, as our people expect, and in the courageous footsteps of Pope Francis, sent by God as an opportune grace.
I do know my responsibility and its obligations, and I know that the administration create supporters and opponents, and the truth has the price, nevertheless I am ready to pursue to no end, since as I am depending on the blessing of God, as well as inspired by the Laws of the Church, while being supported by a sufficient Episcopal consensus as well as being also supported by the existence of a wide base of believers. I will cooperate with all people of good will, and with all churches, seeking in particular the unity of the “Church of the East” in all its branches. This should herald and show that a “joint dialogue committee” will be formed soon.  A Christian should be unionist and ecumenical. Unity in love is a challenge!
In this New Year, I call on everyone to read deeply into the past, to learn the lessons shown to us with a degree of high spirituality and open a new page of relationship, free of prejudices. Naturally, rumors and gossiping are not to be believed in or followed; they are just a form of burning out oneself, and aiming to burn the church. I call all to work together as a team, without transforming divergent opinions into conflicts and huff; such an attitude would not worthy of our history and our priesthood in its various orders; let us live our priesthood as supreme message in accordance to the calling of Christ. Being together on the same vocational path, let us love our church and let us strive for its renaissance and for contributing to its resurrection. Let us pray for this intention. Whoever is praying is abiding in Christ. Spiritually it is a hard time for the church, but surely she will come out of it stronger and purer
The consecration of two new bishops is a sign of renewed hope for the Chaldean Church.
At this time we have to stand strongly with our displaced people of all denominations who are suffering, worried, and frightened.  Let us use all our possibilities to raise their spirits, and to nurture hope in their heart. Evil has no future.  The storm will certainly pass.  We are today, with our experience and belief change agents and active witnesses of Hope. We are guardian of our mission. We are carrying a history and message. Do not let this opportunity pass!
Pray for the church, for peace in Iraq and the region and for the relief of our displaced brothers and sisters through their rapid return to their homes and towns.

Sinodo caldeo straordinario: alla prova l'unità della Chiesa

By Baghdadhope*

Il prossimo 6 febbraio si terrà a Baghdad la cerimonia di ordinazione dei due nuovi vescovi della Chiesa Caldea: Mons. Emanuel Hana Shaleta, vescovo della diocesi canadese di Sant’Addai e Mons. Basel Yaldo che sostituirà, come vicario patriarcale a Baghdad, Mons. Jacques Isaac che già lo scorso anno aveva raggiunto i 75 anni di età.
Il giorno dopo si terrà un sinodo straordinario con vari punti in programma tra i quali, certamente, uno che non mancherà di avere conseguenze: la ribellione di alcuni sacerdoti e monaci, e di un vescovo nei confronti di una delle decisioni prese nel 2013.
Nel sinodo di quell'anno si era deciso che i sacerdoti ed i monaci che in passato si erano stabiliti all’estero senza il consenso del proprio vescovo o del proprio superiore, ed erano stati accolti in altre diocesi da vescovi che, si legge, avevano agito al di fuori delle leggi ecclesiastiche, facessero ritorno in patria.
Questi sacerdoti e monaci, (12 in tutto) per mesi, e malgrado i ripetuti inviti, non avevano adempiuto alle disposizioni sinodali tanto che, a settembre del 2014, fu necessario da parte del Patriarcato pubblicare un ultimatum dando loro un mese di tempo per tornare in patria.
Il problema, fu specificato qualche giorno dopo, non riguardava solo la fuga dei chierici ed il loro rifiuto a tornare, ma anche quello della generale mancanza di sacerdoti nelle diocesi in Iraq, e la conseguente impossibilità di accettare uno status quo che vedrebbe quelle estere "rafforzarsi" a scapito di quelle in patria.
Il 22 ottobre il decreto di sospensione divenne effettivo. Non c'è giustificazione alcuna, si legge, perché questi sacerdoti e monaci debbano decidere dove servire la Chiesa perseguendo i propri fini personali quando, invece, dovrebbero prendere esempio dai martiri della Chiesa, dai sacerdoti che pur essendo stati rapiti in passato sono rimasti nel proprio paese, e da quelli che, scacciati con i loro fedeli dai propri villaggi e dalle proprie città, li hanno seguiti e serviti in esilio.
Il decreto può apparire ad un primo esame nient'altro che un provvedimento canonico ma non è escluso che possa avere conseguenze più gravi per la chiesa caldea che la perdita di alcuni sacerdoti. Ancor prima della sua promulgazione il patriarcato si era infatti sentito in dovere di sottolineare la sua continua ricerca dell'unità, di come il provvedimento non fosse esplicitamente diretto contro la Diocesi di San Pietro Apostolo (San Diego - California) guidata da Mar Sarhad Jammo e presso la quale operavano la buona parte (9) dei sacerdoti e monaci "fuori legge", e che non si trattasse né di vendetta personale né di un atto di ostilità.
Eppure è proprio come un attacco contro la diocesi degli Stati Uniti Occidentali che il decreto fu percepito da molti, tanto che nello stesso giorno della sua pubblicazione essa pubblicò sul suo sito la risposta in cui si informava di aver presentato appello al Santo Padre perché "i fedeli non fossero privati dei loro sacerdoti" e perché la diocesi non andasse incontro ad una "catastrofe spirituale" dovuta alla perdita di più di metà dei suoi sacerdoti e la conseguente chiusura di 5 parrocchie e 3 missioni. 
Secondo il sito diocesano il canone 1319 del Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali prevede che "un appello sospenda l'esecuzione di una sentenza" ed è per questa ragione che i sacerdoti sospesi dal Patriarca e dal Sinodo avrebbero continuato a svolgere i propri compiti in attesa, "in obbedienza ed unità", della direttiva pastorale del Santo padre a riguardo.
Santo Padre che, si legge, è il "capo dell'intera chiesa in terra" e che per tanto gode di "potere ordinario supremo, pieno, illimitato e universale".
Al contrario, sempre secondo il documento diocesano, il Can. 78 §2 prevede che "la potestà del Patriarca può essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice."
Secondo il citato Can. 150 §2 poi: "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale."

Ragioni diverse da quelle addotte dal Patriarcato che si appella ai canoni (Tit.X Cap.II CCEO) che, in parole povere, regolamentano in modo preciso l'eventuale passaggio di un chierico da un'eparchia all'altra.   
Le citazioni dei canoni cui entrambi i documenti, quello patriarcale e quello diocesano, fanno riferimento per sostenere le proprie ragioni saranno certamente territorio di scontro tra i canonisti di ambo le parti.
Ad una lettura non specializzata però appare chiaro che la diocesi americana si stia allontanando sempre più dalla sede patriarcale, arrivando a negare che il Patriarca possa esercitarvi un qualsiasi potere in contrasto con il Vescovo che risponderebbe solo ed eventualmente a quello del Sommo Pontefice.
Dalla pubblicazione del primo ultimatum ai chierici ribelli la disputa tra le due parti si trascinò nei mesi successivi con dichiarazioni ed appelli da parte del patriarcato, e con l'espulsione di un monaco e di due che continuarono però ad operare nella diocesi americana suscitando lo sdegno del Patriarca Louis Sako che, in un messaggio indirizzato ai fedeli di quella diocesi, ricordò loro che ricevere i Sacramenti da chierici espulsi era inaccettabile, e che ciò valeva a dispetto della decisione che Roma avrebbe preso riguardo i loro casi e quelli degli altri chierici sospesi dalla vita sacerdotale. (Successivamente sarebbe stato espulso un altro sacerdote) 
Mons. Jammo, si legge inoltre, non sarebbe stato in grado di proteggere i sacerdoti, se scomunicati, e li avrebbe lasciati al loro destino perchè Roma non si sarebbe messa contro il Patriarcato: "questo deve essere chiaro". 
Agli inizi di gennaio, non un comunicato dalla diocesi di San Diego, ma diversi articoli apparsi sui media californiani, annunciarono che i chierici sospesi ( compresi quelli espulsi) erano stati autorizzati dal Vaticano a rimanere nella diocesi ed a non far ritorno in patria. Una circostanza, questa, che il Patriarcato avrebbe chiarito a  metà del mese affermando trattarsi non di una lettera del Papa ma di una missiva privata del Cardinale Leonardo Sandri, a capo della Congregazione per le Chiese orientali, con la quale l’alto prelato autorizzava i chierici sospesi per decreto, ed operanti nella diocesi americana, a celebrare la Santa Messa fino alla decisione definitiva sulla loro sorte (cui si si dovrebbe arrivare durante un incontro in Vaticano il 17 febbraio prossimo), ed invitava lo stesso Mons. Jammo al dialogo con il Patriarcato. 
D'altra parte il Patriarcato, forse cercando di porre fine alla diatriba mediatica aveva già affermato che: "la questione della diocesi di San Diego sarà risolta dal Sinodo o legalmente dalla Santa Sede!"
Una presa di posizione che non cambiò però la linea intransigente della diocesi americana che, quello stesso giorno, benedisse l'altare della nuova sede del seminario di Mar Abba il Grande con la partecipazione di ben 4 dei chierici sospesi.
Alla luce di questi scontri, la cui parte mediatica qui riportata è solo la punta dell'iceberg, quante probabilità ci sono che il Sinodo straordinario del 7 febbraio possa risolvere la questione? 
Mons. Sarhad Jammo non ha partecipato ai due ultimi sinodi (2013-2014) e non c'è ragione di pensare che si farà vedere a Baghdad. Allora? Più che decidere qualcosa, in attesa del pronunciamento della Santa Sede, questo Sinodo sembrerebbe convocato per "contare le forze" a favore o contro il Patriarcato e mandare di conseguenza un messaggio chiaro alla diocesi ribelle: rientrare nei ranghi.
Per cercare di capire di più di una faccenda obiettivamente ingarbugliata e ben più lunga di quanto riportato, Baghdadhope ne ha parlato con il patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako. 
Beatitudine, nell’ultimo anno purtroppo molto si è parlato della comunità irachena cristiana colpita dalle violenze dell’ISIS che hanno causato la migrazione forzata di centinaia di migliaia di fedeli da Mosul e dalla Piana di Ninive, e del faticoso ruolo della Chiesa nel dare conforto spirituale e materiale ai profughi. Come mai in questo contesto di urgenza la Chiesa Caldea ha pensato ai sacerdoti ed ai monaci fuggiti all’estero, alcuni anche da molti anni?
“E’ stato necessario perché avevamo notato come questa “moda” stesse tendendo a riproporsi. Si è trattato di una questione di giustizia: se impediamo ai sacerdoti ed ai monaci di lasciare l’Iraq anche quelli che lo hanno già fatto senza alcun permesso  devono tornare. Se siamo arrivati a tanto è perché gli appelli rivolti in passato a quei sacerdoti ed a quei monaci dai vescovi e dal superiore dell’Ordine erano rimasti inascoltati.
Il provvedimento mira ad evitare il collasso dell’ordine monastico e della sua vita ed a ristabilire l’ordine nelle diocesi. Attualmente in Iraq vivono circa 400.000 cristiani di cui più della metà caldei, e questi ultimi possono contare su 75 sacerdoti diocesani e 15 monaci. Una realtà in sofferenza visti gli avvenimenti degli ultimi anni, e soprattutto del 2014, che ha bisogno di tutte le forze che la Chiesa può mettere in campo. Un sacerdote o un monaco che fugge non solo dà un cattivo esempio, ma nega ai fedeli in patria quel conforto morale e spirituale più che mai necessario oggi.”

La prima obiezione al decreto di sospensione del Patriarcato da parte della diocesi degli Stati Uniti occidentali guidata da Mons. Jammo che conta ben 9 dei sacerdoti e monaci ad esso interessato è che, secondo i Canoni, (Can. 150 §2): "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale." Trova che questo canone possa essere l’appiglio legale per evitare il ritorno di quei monaci e quei sacerdoti? 
“Un tale canone poteva avere senso quando le comunicazioni tra le diocesi lontane dal patriarcato erano difficili e necessitavano di molto tempo. Ora non è più così, e questi canoni vanno rivisti per evitare pericolose derive indipendentistiche che potrebbero portare alla frantumazione della Chiesa come corpo unitario. Lasciare che questi sacerdoti, questi monaci e questo vescovo agiscano a loro piacimento creerebbe un precedente inaccettabile. Per questo bisogna ridefinire i limiti del potere dei vescovi e del Patriarca rivedendo i Canoni. I moderni mezzi di viaggio e comunicazione permettono al Patriarca di avere il controllo immediato su tutto ciò che succede nelle diocesi del mondo. Mons. Jammo non ha nessun diritto decisionale e disciplinare sulla sorte di questi sacerdoti e monaci che hanno lasciato i loro posti senza alcun permesso perché non aveva il diritto di accoglierli senza di esso. E poi, se è vero, come ha affermato, di non poter fare a meno di loro per il buon funzionamento della sua diocesi, perché ha allontanato i 4 sacerdoti che lì operavano e che si sono rifiutati di firmare l’appello al Vaticano contro il decreto patriarcale? Lui afferma di dipendere direttamente dal Papa e non dal Patriarcato. Se è così perché ha accettato la sua nomina a vescovo fatta dal Sinodo caldeo? Perché ha partecipato ai Sinodi della chiesa caldea? L’ho scritto e lo ribadisco: i passi intrapresi non sono frutto di astio personale, ma di considerazioni dettate dai fatti, che mi addolorano, e di necessità canoniche e pastorali. Da molto tempo Mons. Jammo agisce al di fuori delle decisioni sinodali. Ricordiamo che agli inizi degli anno 90, quando era ancora sacerdote nell’allora unica Diocesi negli Stati Uniti, lui stesso fu sospeso dal Patriarca Raphael Bedaweed, anche se fu successivamente riabilitato fino a diventare vescovo della seconda eparchia in terra d’America nel 2002.  Non si tratta quindi solo di questi sacerdoti e questi monaci, un altro tra i vari casi di insubordinazione è, per esempio, che nella sua diocesi non si usa il nuovo messale come deciso dal Sinodo. Queste ed altre prese di posizioni arbitrarie stanno facendo allontanare dalla Chiesa molti fedeli e centinaia di famiglie che non la sentono più come “loro.”  Famiglie in diaspora che invece dovrebbero trovare in essa il “centro aggregante”  per rinnovare la loro spiritualità nel segno della tradizione."
Beatitudine, Lei è stato accusato dalla stampa americana di disobbedienza verso il Papa che avrebbe invece dato, per lettera, il permesso ai sacerdoti ed ai monaci interessati dal decreto di rimanere nella diocesi di San Pietro Apostolo. Come risponde a questa accusa?
“E’ una bugia, un’ennesima bugia. La lettera che Mons. Jammo ha dichiarato aver ricevuto dal Papa è stata scritta in realtà, e così doveva essere, dal Cardinal Sandri, Prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, ed in essa si dà il permesso a quei sacerdoti ed a quei monaci di celebrare la Messa, ma solo finché non verrà presa una decisione definitiva sul caso.”        
Beatitudine, prima dell’incontro sulla questione in Vaticano, a Baghdad si svolgerà il Sinodo straordinario. Pensa che Mons. Jammo interverrà per perorare la causa dei chierici accolti nella sua Diocesi?
“Penso che Mons. Jammo non verrà. D’altronde non lo ha fatto né nel 2013 né nel 2014. Non verrà perché a mio parere non vuole dialogare con il Sinodo. Sinceramente non so cosa voglia.”
Se, come dice, Mons. Jammo non interverrà al Sinodo sarà necessario sarà ricorrere al Vaticano. Cosa potrebbe succedere?
“Penso che l’unica soluzione sia quella delle dimissioni di Mons. Jammo che potrebbe ritirarsi in monastero, e della nomina di un Amministratore Apostolico che porti poi a quella di un nuovo vescovo.
I monaci dovranno invece tornare in monastero per riprendere la vita monastica di preghiera e riflessione cui si sono votati; non è concepibile, infatti, neanche con il pretesto dei molti fedeli e dei pochi sacerdoti, che essi operino come sacerdoti diocesani come da anni fanno nella diocesi di Mons. Jammo. Per quanto riguarda i sacerdoti dovranno tornare alle loro diocesi originarie anche se bisognerà valutare caso per caso: la Chiesa ha bisogno di sacerdoti capaci e fedeli, è meglio che chi non lo è la abbandoni di sua volontà prima di esserne cacciato, come è capitato ad un sacerdote ed ad un  monaco interessati dal decreto di sospensione che negli scorsi mesi hanno trasformato le omelie in arringhe di accusa e minacce nei confronti del Patriarcato e del Sinodo. In chiesa si va per pregare ed affidarsi a Dio, non per schierarsi. Non abbiamo bisogno di sacerdoti come loro. Io spero che il Vaticano appoggi la linea del Patriarcato. Se così non sarà per la Chiesa Caldea sarà la fine. Da Roma dovrà venire una decisione chiara. Non abbiamo alcun dubbio, anche se affermarlo è doloroso ed imbarazzante: la colpa di questa situazione è da addossare a Mons. Jammo. I sacerdoti ed  i monaci nella maggior parte dei casi sono le sue vittime perché è lui che li ha accolti e convinti a restare pur sapendo che non era corretto. Facendo così ha ferito la Chiesa, dato il cattivo esempio e creato un precedente che non deve ripetersi"

E se Mons. Jammo non accettasse di dimettersi?
“Se non accettasse e se il Vaticano non lo esonererà sarò io a lasciare la carica patriarcale che non avrebbe più nessun senso, se non quello di un titolo onorifico cui non tengo. Il Vaticano può farlo alla luce di quanto è successo e dei suoi precedenti. Dovrà trattarsi di una decisione senza compromessi, per il bene della Chiesa.”


Le forti parole di Mar Sako, e l’intransigenza mostrata da Mons. Jammo, in questa ed altre questioni che negli anni hanno contrapposto i due prelati, fanno presagire dei cambiamenti nella chiesa caldea.
Quali potrebbero essere le soluzioni di questa controversia dopo il Sinodo straordinario e l’incontro in Vaticano? Le ipotesi sono diverse, ma solo dopo il 17 di febbraio si conoscerà il futuro corso della questione.
Mons. Jammo potrebbe fare marcia indietro, pentirsi e chiedere scusa. Soluzione possibile ma improbabile che potrebbe mantenere il vescovo al suo posto fino al suo 75° anno di età (nel 2016) ma senza nessun potere e credibilità, e che comunque non risolverebbe la questione dei sacerdoti ormai espulsi.
Mons. Jammo potrebbe trovare appoggio in Vaticano e ciò potrebbe portare, come dichiarato, alle dimissioni del Patriarca, ad una conseguente gravissima crisi per la Chiesa Caldea ed alle enormi difficoltà nel trovare e nominare un eventuale successore che saprebbe in anticipo di non avere nessun potere, neanche se appoggiato dal Sinodo, nei confronti di chi volesse operare al di fuori delle decisioni sinodali.
Mons. Jammo potrebbe accettare di dimettersi come suggerito da Mar Sako. Il suo posto sarebbe preso da un Amministratore Apostolico e poi da un Vescovo che, si può pensare, sarebbe scelto per la fedeltà al Patriarcato, e certo non avrebbe compito facile in una diocesi numericamente importante e ricca, e da sempre abituata a riconoscere solo il suo vescovo come capo.
Mons. Jammo potrebbe rifiutare di dimettersi creando così una frattura insanabile tra lui, la chiesa caldea e la chiesa cattolica universale che potrebbe addirittura sfociare in uno scisma e nella creazione di una nuova chiesa negli Stati Uniti.
Il Vaticano potrebbe chiedere al Patriarca la pazienza di aspettare che Mons. Jammo compia i 75 anni di età nel 2016 “congelando” la situazione e rimettendola al Sinodo caldeo successivo al pensionamento del presule. Una soluzione che però Mar Sako ha affermato di non potere accettare parlando di “decisione chiara
e “senza compromessi”.
Insomma, un problema spinoso per il Vaticano e la Chiesa Caldea che, invece, mai come di questi tempi avrebbe bisogno di concentrare tutte le sue forze nell’assistenza di centinaia di migliaia di persone che non vivono in California ma nelle tende nel nord dell'Iraq.

28 gennaio 2015

Islamic State Torches Armenian Church in Mosul


Iraq–Militants of the Islamic State, also known as ISIS or ISIL, have burned down an Armenian church in the Wahda neighborhood of Iraq’s second largest city, reported BasNews.com
Armenpress confirmed the report, adding that the church, which was targeted by ISIS militants, was the new church and the not the old St. Etchmadizin Church.
A representative of the Armenian Diocese told Armenpress that the church was looted and bombed two years ago. In June, ISIS militants also attacked the same church, when they invaded Mosul, after which Armenians and Christians were driven out and fled to nearby provinces of Kurdistan.
Saed Mamuzini, a Kurdistan Democratic Party official from the city, told BasNews, “IS insurgents continue to torch and destroy public places, people’s homes and shrines.”
“They systematically destroy homes and shrines on a daily basis,” said Mamuzini.
“The church belongs to the Armenian Christians and was regularly used for worship,” added Mamuzini.

U.S. bishops' group travels to Iraq, meets with those who fled ISIS

By Catholic News Service
Dale Gavlak

One of Iraq's Christians chased out of her historic homeland quietly prayed the rosary as a bishop who traveled halfway around the world to meet her and others displaced celebrated Mass for them.
"It's a journey of encountering God, the poor and the dispossessed," Bishop Oscar Cantu, chairman of the Committee on International Justice and Peace of the U.S. Conference of Catholic Bishops, told the gathering in this predominantly Christian enclave in Irbil, capital of the northern Kurdistan region.
Bishop Cantu traveled to northern Iraq with a USCCB delegation Jan. 16-20 to see the needs of displaced Christians and other religious minorities. The delegation plans to share its findings and views with policymakers on Capitol Hill.
The elderly woman, wearing a traditional long robe, sat transfixed during the homily, silent except for the clicking of her rosary beads.
Tears welled up in her eyes as she remembered having to escape her mainly Christian village of Qaraqosh in August after it was brutally attacked by Islamic State militants.
Now, she lives in poverty among 113 families in a tent camp erected in a tiny park outside the St. Ellial Chaldean Catholic Chapel. Deeply traumatized, many feel lost.
All are dependent on church assistance, and they wonder what future awaits them. The Islamic State onslaught forced them to leave behind possessions in a quick escape where the choice was conversion to Islam or death.
The Kurdish region is hosting more than 800,000 Iraqi religious minorities fleeing Islamic State terror, according to the United Nations.
"It's a journey of encountering Christ, walking with him and falling in love with him," said Bishop Cantu, who heads the Diocese of Las Cruces, New Mexico.
The words were reminiscent of those spoken by another displaced Iraqi Christian, who said that Jesus told him to "Come and follow me."
"Pray as we encounter the many displaced and uprooted from their land and for the many responding to their needs in a beautiful way," said Bishop Cantu, referring to vast Catholic charity work undertaken by Iraq's parishes and international Catholic aid agencies.
"Continue to tell their stories as an encounter with God," Bishop Cantu said.
That's exactly what Stephen Colecchi, who directs the USCCB Office of International Justice and Peace, and Kevin Appleby, director of USCCB Office of Migration Policy and Public Affairs, plan to do with U.S. policymakers, Catholic leaders, congregations and supporters.
Here are a few of the stories they may be sharing.
While Iraqi Catholics in Ainkawa recently celebrated three new deacons set to enter the priesthood as a sign of renewed hope for the future, the area's Chaldean Catholic archbishop expressed deep concerns.
Archbishop Bashar Warda of Irbil estimated 60 Iraqi Christians, many qualified professionals, are fleeing the country daily in the belief that "peace will not return."
"Unless we do something for those who are persecuted and forgotten, we are going to lose more people," he warned of the weakening Christian presence in their ancestral land, one of the world's oldest Christian communities.
An elderly Christian man told the group that one of his sons recently traveled to Jordan in the hopes of reuniting with another son, who lives in Detroit.
The U.S. and other Western embassies reportedly have said that they do not expect to grant resettlement to Iraqi Christians. The displaced inside Iraq are not considered refugees and may have possibilities for work, although those sheltering in remote villages lack such opportunities or the needed transportation.
But those who have sought shelter in one of Iraq's neighboring countries are refugees. And those with direct family members in the West may also apply for family reunification.
Given the Vatican's position urging Christians to remain in the Middle East, Appleby said the delegation would focus on the "most vulnerable who are impoverished with less resources to stay." In this case, the USCCB would advocate for more direct assistance from the U.S. Agency for International Development and other programs to help the displaced inside Iraq.
"We are encouraging the government to increase humanitarian assistance, provide the right kinds of assistance through the proper channels, so it actually gets to the people," said Colecchi.
"One of the positions our conference has taken is the most vulnerable ones -- who have lost a breadwinner or have members that are very sick who might not be able to ever go back -- if they can't, the church wants to be in a position to advocate for them with our government," Colecchi added.
Archbishop Warda said serious efforts were needed to rid Mosul, Iraq's second-largest city, of Islamic State militants who have made it their stronghold. He also urged increased U.S. coalition military operations against the extremists, saying this may be the only way to achieve the goal.
Turning to the youth, the archbishop said that displaced students have been forced to abandon their studies due to no available places in schools or not enough schools, leaving many in despair for their future. He called for the establishment of a Catholic university and other educational institutions in Irbil.
UNICEF, the U.N. children's agency, has advocated education as one of the best ways to restore normalcy to children's lives torn apart by conflict.
Bishop Cantu advocated policies based on the "strength of families, their dignity, ability to work and have an identity."
He told the displaced Iraqis a story from Gaza, where the group began its Mideast visit, saying the story speaks widely for all those suffering in the region.
"During the war the (high school) student got an email asking if he needed food, clothing, shelter," Bishop Cantu said. "He said: 'I don't need those, but yes, the people do. But more than anything, what we are looking for is dignity.'"

Iraq’s Christians start taking security into their own hands

By The Daily Star (Lebanon)
Camille Bouissou| Agence France Presse
Camille Bouissou - Agence France Presse

When jihadists raided their ancient heartland last month, Iraq’s Christian Assyrians were left defenseless and fled, but now some have decided it is time to put up a fight.
In Sharafiya, a village that Kurdish peshmerga retook from ISIS fighters just north of the jihadist hub of Mosul, the homes are still empty and only a few armed men can be seen patrolling.
From a distance, with their sand-colored uniforms, they look like peshmerga. But their arm patches sport crossed rifles and the Assyrian flag – a golden circle in a blue four-pointed star with wavy red-white-blue stripes.
Meet the Dwekh Nawsha – an Assyrian phrase conveying self-sacrifice – one of the newest militias in the ever-expanding galaxy of Iraqi armed groups and one of the first to be exclusively Christian.
It was officially created Aug. 11, a week after the Ninevah plain exodus that clerics have called the worst disaster to ever befall Iraq’s Christians, and is made up of a modest 100 men.
“We are small in size but big in faith,” said Lt. Col. Odisho, the former Iraqi army officer in charge of training new recruits.
According to the Assyrian Democratic Movement, Iraq’s most prominent Christian political party, at least 2,000 men have already volunteered to fight ISIS.
But it says training and military equipment are badly needed to confront the jihadists and their army of suicide bombers, battle-hardened foreign fighters and looted U.S. military gear.
In a bid to structure a real defense force, an Assyrian delegation recently traveled to Lebanon to seek inspiration and advice from the Lebanese Forces group, a Dwekh Nawsha member told AFP.
They met with Samir Geagea, leader of the Lebanese Forces, which was the largest Christian militia in the country during the last years of the 1975-1990 Lebanese Civil War that killed some 150,000 people.
Geagea said his party would “support any decision made in consensus by Iraq’s Christians with a view to remaining” on their land, the fighter said.
In neighboring Syria, where ISIS already controlled swaths of land before their June offensive in Iraq, Christians have long taken up arms, notably under the banner of the Syriac Military Council.
The outfit fights alongside the Syrian Kurdish People’s Protection Units rebels.
In Iraq, while there is no alternative for the Christians but to cooperate with the peshmerga, some wounds will take time to heal.
Many of the tens of thousands of Christians who fled their homes in panic in early August with nothing but their clothes blame the peshmerga for abandoning their posts and leaving them exposed.
A few miles north of Sharafiya lies Al-Qosh, a larger town nestled at the foot of a hill and a historic center for the Assyrians, who have inhabited the region for millennia and once ran one of the dominant kingdoms of ancient Mesopotamia.
The jihadists never reached Al-Qosh and its ancient monastery carved into the mountainside when they swept the region in August but the population fled nonetheless.
In the deserted dust-coated town, the headquarters of the Assyrian Democratic Movement, with its walls painted in the bright purple color of the party, is hard to miss.
Inside the building, uniformed men sat around steaming cups of tea, their rifles laid down beside them.
Most of them were Christian civilians who stayed behind to defend their town and every one of them gave the same account of the night of Aug. 6-7, when the peshmerga retreated to Kurdistan.
“They left without telling anybody,” Athra Kado said.
“They left the town’s men by themselves,” he said.
“Two days earlier they had assured us that we wouldn’t need any weapons, that they would protect us,” one of his tea-drinking comrades chipped in.
“The Kurds did not protect us, the Iraqi government did not protect us,” a third militiaman in same group said. The Kurdish peshmerga, buoyed by foreign military assistance, have since gone on the counter-offensive and returned to guard the town’s entrances.
But around 100 Christian fighters patrol Al-Qosh night and day.
“Maybe they’ll just run away again, so this time we’re staying,” Athra Kado said.
Camille Bouissou

26 gennaio 2015

In Kurdistan con la Focsiv

By Famiglia Cristiana
Fulvio Scaglione


Le cifre non sono aride quando descrivono un dramma di queste proporzioni: nel solo periodo tra gennaio e novembre 2014, 328.086 famiglie, pari a 1.968.516 persone, in Iraq hanno dovuto abbandonare le proprie case lasciando ogni avere dietro di sé per sfuggire alle violenze generate dall'Isis. Di queste, circa 750 mila persone sono riuscite a trovare riparo nel Kurdistan il cui capoluogo, Erbil, ne ospita quasi 200 mila.

Proprio a Erbil si è insediata dall'agosto scorso la squadra della Focsiv, la  Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario che raggruppa 71 organizzazioni di volontariato di ispirazione cristiana e 30 mila tra aderenti e sostenitori.  

La presenza e l'attività di una Federazione che si ispira a quei valori è importante sempre e ovunque ma, inutile quasi dirlo, assume un carattere particolare se spesa sul fronte di un'emergenza dove l'aspetto umanitario, che riguarda tutti, si mescola a quello politico e religioso: come sappiamo, gli islamisti sunniti dell'Isis hanno messo nel mirino i cristiani e le altre minoranze religiose irachene, con il dichiarato obiettivo di sterminarle o costringerle a lasciare il Paese. 

Così, alle dimensioni oggettivamente enormi della tragedia, si aggiunge una dura complicazione. Lo spirito del lavoro umanitario, ovviamente, non contempla distinzioni di razza né di fede. Al contrario. E infatti anche le Chiese locali sono impegnate in uno slancio solidale verso tutti, tutti figli della stessa emergenza. 

Per tutte queste considerazioni, Famiglia Cristiana ha deciso di seguire lo sforzo dei volontari Focsiv in Kurdistan: per raccontare il dramma dei profughi ma anche per sostenere la speranza di poterli aiutare nel bisogno e accompagnare nel ritorno alla normalità che le attività delle Ong esprimono, su uno dei fronti dove, oggi, i cristiani sono più minacciati e perseguitati.

UN Refugees envoy Angelina Jolie says international community ‘failing’ Iraq’s displaced

By UN News Centre

The rapidly deteriorating humanitarian situation in Iraq is a “shocking” reality that demands the international community’s immediate attention, Oscar-winning actress and United Nations refugee agency (UNHCR) Special Envoy, Angelina Jolie, urged today as she visited Syrian refugees and displaced Iraqi citizens in the Kurdistan Region of Iraq.

“Since I was last here in Iraq, another 2 million people have been forced from their homes, mostly in the last six months – this time Iraqi citizens,” Ms. Jolie said at a press conference held at the Khanke Camp for Internally Displaced People (IDPs), in Iraq’s Dohuk Governorate.

“The spill-over from the Syria conflict has been devastating,” she continued. “The brutality of the conflict and speed and scale of the displacement has shocked the world. Help has come, but not nearly enough.”

Ms. Jolie’s latest visit – her first to Iraq since September 2012 – comes amid a “dramatic” worsening of the humanitarian situation in the war-torn country as the conflicts in Syria and Iraq “intensify and become intertwined,” UNHCR warned in a press release.

As a result of the escalating violence and precipitating security situation in the region, 3.3 million remain displaced throughout the country and an estimated 330,000 people still live in sub-standard shelters as they face their first winter away from home. The grim scenario is also unfolding despite UNHCR’s ongoing “massive aid response” which, noted Ms. Jolie, was in dire need of additional funding.

During her visit to Khanke, the Special Envoy met with Iraqi IDPs as well as elderly women who were among the 196 Yazidis recently released by insurgents. The camp is currently hosting more than 20,000 people from the Yazidi minority who fled Sinjar, in Iraq’s Nineveh province, in early August as militants of the Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) advanced against Government forces.

“Nothing can prepare you for the horrific stories of these survivors of kidnap, abuse and exploitation and to see how they cannot all get the urgent help they need and deserve,” Ms. Jolie said. “Children whose parents were murdered and are now here unaccompanied – a 19 year old working and being the sole provider for his 7 siblings. I have met mothers whose children have been kidnapped by ISIL. As a parent, I couldn’t imagine a greater horror. They are overwhelmed by thoughts of what is happening to their children.”

According to UNHCR, funding shortfalls have directly affected the scale and type of programmes the agency maintains to help survivors of violence and human rights abuses, including shelter and other assistance. Only 53 per cent of the UN agency’s required $337 million for 2014 Iraq response has been received. In addition, it has received the go-ahead to proceed on projected funding for only 31 per cent of its required $556 million for 2015.

“Too many innocent people are paying the price of the conflict in Syria and spread of extremism,” Ms. Jolie added, as she concluded her visit. said wrapping up the first day of her two-day visit to Iraq today. “The international community has to step up and do more.”

“It is not enough to defend our values at home. We have to defend them here, in the camps and in the informal settlements across the Middle East, and in the ruined towns of Iraq and Syria. We are being tested here, as an international community, and so far – for all the immense efforts and good intentions – we are failing.”

Piece By Piece, Monks Scramble To Preserve Iraq's Christian History

By National Public Radio
Alice Fordham


In an unfinished building in the northern Iraqi city of Erbil, displaced Christian children sing a little song about returning to their village. "We're going back," they sing, "to our houses, our land, our church."

Right now, they're living in an open concrete structure. The self-styled Islamic State, or ISIS, took over their home village of Qaraqosh, and the Christians fled in fear, on foot.
They finish their song and applause breaks out from two unlikely figures. One is a beaming Iraqi in white robes, Father Najeeb Michaeel. The other is Father Columba Stewart, a tall, spare and pale Texan with black-rimmed glasses and black vestments. Both are Dominican monks.
Michaeel explains that the church and various NGOs have provided shelter, heaters, pots, pans and food. But Stewart's main reason for coming from his monastery in Minnesota is a parallel rescue project, located in a secret house nearby.
Michaeel is afraid to reveal the precise location, but in a cool, sunlit room there is a mass of books.
"It's a big collection of our archive, and the manuscripts there and the old books," he says proudly.
Father Michaeel has stashed a substantial part of what remains of the Christian libraries of Iraq.
There have been Dominican monks in the city of Mosul since about 1750. They amassed a library of thousands of ancient manuscripts and say they brought the printing press to Iraq in the early 1800s. Rattling around in a box, Michaeel brings out Aramaic typeset.
As an Islamist insurgency roiled Mosul in 2008, monks smuggled their library out, bit by bit, to the Christian village of Qaraqosh. Last summer, when ISIS was inching closer, Michaeel took action. He prepared everything and put the collection in a big truck at 5 a.m.
"We passed three checkpoints without any problem, and I think the Virgin Mary [had] a hand to protect us," he says.
Michaeel had to leave the library of more than 50,000 regular books. He knows other orders of monks have lost all their libraries, and he believes monasteries and churches have been looted and used as prisons or torture chambers by the extremists. But the manuscripts and antiquities in his care, he brought here.
"The father or mother try to save the first thing -- the children," he says. "So these books [are] my children."
In Qaraqosh, he had been working on a digitizing project, headed by Stewart's Hill Museum & Manuscript Library in Minnesota. Father Michaeel had gathered manuscripts from all around Iraq and was photographing them so scholars worldwide could read them.
Stewart studies manuscripts in Syriac, a variant of the Aramaic language that dates back to the time of Jesus.
The monks explain there's actually two dialects: western Syriac and eastern Syriac. Michaeel sings the "Our Father" prayer in both to demonstrate the differences. Father Columba studies the way prayers shift across dialects and needs the manuscripts to do it. He's brought new equipment so the work can go on.
Every night in Erbil, in drafty, half-built structures, the displaced families huddle, sing the old prayers together and hope they'll go home.
In private, the monks say they think this upheaval will drive the last of Iraq's Christians out. They're trying to document as much of the heritage as they can before all this disappears.

22 gennaio 2015

Citing turning tide for country's Christians, papal envoy says 'Pope Francis is expected in Iraq'

By Aid to the Church in Need

"If they do return it won't be easy; besides the reconstruction of destroyed houses and infrastructure, such as schools, it will be necessary first and foremost to restore the trust in Muslim neighbors which has also been shattered.Many Christians feel their neighbors betrayed them, because they looted their [abandoned] houses."
The Vatican’s top diplomat in Iraq, Archbishop Giorgio Lingua, is cautiously optimistic that the Christians driven out of northern Iraq by the Islamic State might be able to return to their homes sometime this year.
He told international Catholic charity Aid to the Church in Need, however, that the process will be most challenging—aside from the formidable military effort that will be required, and which most observers consider to be unlikely to happen anytime soon.
 “If they do return it won't be easy," the nuncio explained; "besides the reconstruction of destroyed houses and infrastructure, such as schools, it will be necessary first and foremost to restore the trust in Muslim neighbours which has also been shattered.
“Many Christians feel their neighbors betrayed them, because they looted their [abandoned] houses. So it will not only be necessary to repair homes, but also relationships."
Archbishop Lingua gave a positive assessment of the work done by the Iraqi central government: “Something has been put in motion; the new government is working well. A fundamental factor is the greater involvement of all groups.
"The country will never be free of  of terrorism as long as some ethnic and religious components are barred from the governing process. If a group is excluded it must not be assumed that they will not rebel.”
The alienation of the Arab Sunni population from the Shiite-dominated central government is seen as one of the main reasons for the rise of Islamic State.
What is crucial for the future of Christianity in Iraq, Lingua stressed, is how the crisis in Mosul and the Nineveh Plain will be handled. That is the territory where the majority of Christians have lived for many centuries and which is currently occupied by Islamic State.
"If the government manages to regain control there and implements a campaign of national reconciliation, then there will be a place for Christians in Iraq," the archbishop said.
“If clashes persist, however,” he added, “the weakest will pay the price, and these are always the minorities. We therefore have to hope that peace will return. This is where the international community comes in."
Archbishop Lingua stressed that the basic humanitarian difficulties experienced by the refugees, such as the inadequate medical care, are currently aggravated further by the cold winter. "At the present time the people mainly need heaters. There are reports that some of the children have perished in the cold."
On top of this there are growing psychological strains. "The people don't know how long they still have to hold out as refugees," Lingua said. "This hopeless situation is causing some people to consider emigration while they don't actually want to leave."
About 7000 Christians have already fled to Jordan, where many are awaiting to leave for Western countries. The nuncio reported that about ten percent of the 120,000 Christians who fled their homes in August have left Iraq.
The Nuncio also stressed that Pope Francis was deeply concerned by Iraq and the situation of the Christians there. Asked about the possibility of a papal visit to Iraq, he said: "The Holy Father is expected in Iraq both by the Church and the political powers, and even by non-Christians such as the Shiite leadership. I am impressed how great the consensus is concerning the figure of the Pope."
As regards security concerns surrounding a visit by the Pope to Iraq, Lingua said: "I'm no expert in such matters. But everybody says that they would do everything to make the visit a success."
Archbishop Lingua said that a possible visit would have to last longer than one day: "You can't come to Iraq and not go to Ur, which Sunnis, Shiites and Christians all revere as the birthplace of Abraham. You can't not go to Baghdad, because that's the seat of government. And you can't not go to Erbil, where the majority of Christian refugees live.”
“I would therefore prefer a visit to be fixed for a later date and for it to be more extensive, rather than for it to be organized quickly, with the risk of missing out on some opportunities."

21 gennaio 2015

Iraq: da Italia a Unicef e Unhcr aiuti per sfollati Kurdistan

By ONU Italia

Garantire una sistemazione al riparo dalle intemperie agli civili sfollati nel Kurdistan e assicurare protezione e sostegno alle ragazze cristiane e yazide vittime di violenza. Questo l’obiettivo dei nuovi contributi di emergenza approvati dalla Cooperazione italiana allo sviluppo e destinati all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e al Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef).
Il finanziamento, per un totale di un milione di euro, sosterrà iniziative in linea con le indicazioni raccolte in occasione della visita in Iraq del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, lo scorso dicembre. Gli interventi di assistenza umanitaria intendono fornire riparo dalle cattive condizione climatiche agli sfollati nella regione autonoma del Kurdistan e ad assicurare protezione e sostegno alle ragazze cristiane e yazide vittime di violenza da parte dello Stato islamico/Daesh.
Il contributo di 500 mila euro destinato a Unhcr servirà alla costruzione di un nuovo campo di accoglienza per circa 6.240 sfollati interni nel Governatorato di Sulaymaniyah, area sinora poco coperta dagli interventi della comunità internazionale. Grazie alla donazione italiana sarà possibile installare nel campo postazioni familiari dotate di tenda e cucina. Per affrontare le rigide temperature invernali, l’Unhcr distribuirà anche kit di assistenza contenenti coperte termiche, teli in plastica, taniche per l’acqua, cherosene e una stufa da campo.
Il contributo di 500 mila euro all’Unicef sarà impiegato in particolare per fornire assistenza umanitaria e supporto psicologico alle donne vittime di violenza – in gran parte minori – appartenenti alle minoranze religiose più gravemente colpite dall’avanzata dello Stato islamico/Daesh, come ad esempio quella yazida. Anche grazie all’impegno dell’Italia, Unicef prevede l’erogazione di servizi per la salute riproduttiva, supporto psicologico e cure mediche di emergenza per le donne che sono state liberate o sono riuscite a fuggire dopo essere state soggette a rapimenti e violenze, al fine di consentirne la reintegrazione nelle comunità di appartenenza.

Uprooted Qaraqosh: ‘The Biggest Island of Christianity in the Islamic Ocean’

By National Catholic Register
Doreen Abi Raad


Syriac-Catholic Bishop Barnaba Yousif Habash
reflects on the plight of the Christians from his native city, who were displaced by last year’s Islamic State takeover of their homelands.


On Aug. 6, 2014, after evening Mass on the feast of the Transfiguration, the Christian residents of Qaraqosh, Iraq, were threatened by the Islamic State to convert to Islam, pay a tax or be killed. That prompted the exodus of the city’s 50,000 Christians, who fled to Irbil, the capital of Iraqi Kurdistan, with nothing but the clothes on their backs.

Qaraqosh, a bed of Christianity since the first century, was totally Syriac Catholic. Syriac-Catholic Bishop Barnaba Yousif Habash of the Syrian Catholic Eparchy of Our Lady of Deliverance, based in Bayonne, N.J., is a native of Qaroqosh. He describes his birthplace as “the biggest island of Christianity in the Islamic ocean.”
One of the Syriac-Catholic patriarchs, the bishop says, referred to Qaraqosh as “the right eye of the Church.” In Aramaic, the language of Jesus, the expression “right eye” means “you are very precious to me.”
Bishop Habash is responsible for the spiritual needs of Syriac Catholics in the United States and Canada, covering 18 parishes and totaling approximately 40,000 people.
Bishop Habash traveled to Irbil to spend the holidays with the more than 100,000 displaced Christians who were uprooted from Mosul and Iraq’s Nineveh Plain, as well as from Qaraqosh, by the advance of the Islamic State. The exiled Christians are still camping out in tents and uncompleted buildings in harsh winter conditions. Among them are priests, nuns and two bishops.
Bishop Habash’s ancestors from Qaraqosh include 16 priests, among them a martyred bishop. At 64 years old, he is the oldest of five priests currently in his extended family, one of whom he recently ordained. In addition, there is a Habash who is a candidate for the priesthood.
Bishop Habash spoke in early January with Register correspondent Doreen Abi Raad at the Syriac-Catholic patriarchate in Beirut, Lebanon, where he stopped after his visit to Irbil before traveling to Rome and back to his eparchy in New Jersey.
There have been media reports from Irbil; and, most recently, before Christmas, a delegation of Catholic bishops from Australia went to visit the displaced in Irbil. But how was it for you, going back to your homeland and seeing your people in such conditions?
You can’t even imagine. Even a picture cannot express and show the misery. If you don’t know a person, you cannot really comprehend the suffering. But when you do know them, then you understand how the misery, the suffering is so deep.
As a bishop of the United States and Canada, I came to show solidarity. I came to let them know: You are not forgotten.
I have been born in their midst. I have been raised with them, so I cannot forget them. And my country, my Iraq, my history, my education, my civilization means a lot to me, not because it’s mine, but because I know it’s a very precious and a rich element of the history of the world.
I was not only shocked, I was not only facing a horrible scandal; I became paralyzed. My spirit, my mind could not work with what I saw there: tens of thousands of people not just suffering, but dying, in the most offensive way.
We have tens of thousands of kids under tents who are not attending school or university. There are about 1,000 university students who could have in one year become doctors, engineers and lawyers. They have been stopped. Why? Why close the paths of the future for Iraqi people just because they are Christian? What a shame.
Why? The jealousy of the devil is what happened. This storm, what happened to them, you can easily call it the jealousy of the devil.
They are Christians; they are authentic people. They are hard workers for peace. They love the others. They love their country. And all of a sudden, they have been told it’s not allowed for you to continue with Christianity without paying a tax, although we are in our land 600 years before Islam, although we were the teacher of the prophet of Islam. We were the teachers of the language of Islam; we were the teacher of the law of Islam; we were the engineers of the buildings and cities of Islam, since the beginning, until recent days. We are their doctors, as we were before; we are their professors. We taught them everything, until the last hours of our existence. Their sick were brought to our hospitals, treated by our doctors.
Qaraqosh has 50,000 people, and, until now, there is not one hotel in the city. Isn’t that amazing? When people visit the hospitals, the schools, for shopping, they stay in our houses as part of the family. We do it with pleasure, for them (Muslims). It is part of our Christian education and morality to accept the others and to give witness to our faith.
But you know what, on the other hand, I found myself strengthened by their faith. I visited more than 500 families in tents and uncompleted buildings. They said to me, “You are most welcome, Bishop.” And they have absolutely nothing. “Oh, you know what, Bishop, yes, we lost everything, but we still have our faith in the Lord Jesus.” Honest to God, almost every family said this: “We give thanks to the Lord. We are still Christian.” And our people were very convinced that, although they had been through a very evil storm, the arm of God saved them. They understood this very well.
Imagine: 24 hours for 50,000 people to escape Qaraqosh, and no one had been lost or injured. That’s why we believe in God, in that we were protected by the power of God. It’s the third exodus.
The people you met, what did they ask of you?
“Bishop, what do you think? You are close to the sources of authority (in the West). Please tell us: What do they say? Are we going back to our home? Please help us, Bishop. Help us.
What can I do?
My childhood home, I cannot go there. I wanted to go to the cemetery to visit my dad, to visit my mom. I could not do it.
Most of the people in Irbil were hoping that, after or during the Christmas season, the Christian cities would be liberated, but they are shocked that still nothing has happened until now. The local powers in Iraq are gambling on us. One of the cards in the gambling is the “Christian card” — the existence of the “problem” of Christianity. So I guess we will have more waves of immigrants.
Is the Western world really understanding the gravity of the situation?
Without the role of the Church, the West could not feel that something happened, with what the Holy Father, the Vatican tried to do, and we should also say a big thank-you for the conference of Catholic bishops in Canada, America, in France, Italy and Germany.
But in general, no, they (the West) don’t know what’s going on. That’s a shame. Because the political West is really very selfish and uncaring. They don’t care, because it doesn’t affect the economy of their countries.
I came from Irbil, I saw the miserable people, the catastrophe, and I have to speak with diplomatic words and to hide the crime, the crime of the world. Because what happened is truly genocide: uprooting innocent people of the wonderful and peaceful civilization of Christianity in this part of the world. But, unfortunately, when you speak about human rights in Europe or America, it is only for your people inside your country. But concerning the outside, the other human beings: “No, we don’t care; it’s their problem.”
I say that about the (Western) politicians, not ordinary people. Americans are the most generous people, the most fine, with their love and with their respect. But the foreign politics is from hell. Nobody cares about us.
We are not terrorists. We are not violent. How come no one cares what happened to us?
When we speak out, we get the routine answer from the Islamic religious or the Muslim authorities: “They are non-Muslim, the Islamic State.” How can it be, they are non-Muslim? All of them are Muslim. Or: “They work outside of the Islamic world.” So who is the financial source of ISIS? It’s very clear; it’s Saudi Arabia. Unfortunately, no one has the guts to say that. Who is fighting Syria? Who is supporting and financing the war against Syria? It’s very clear: Saudi Arabia.
If the West believes in connecting civilizations, there is no bridge but Eastern Christianity to be the bridge between the civilizations. But unfortunately, unfortunately, what’s happening is destroying everything, because the storm is the devil’s storm.
What is the outlook you see for the Christians?
The last hour of my stay there (in Irbil), I spent with the Dominican nuns. (The 40 nuns of the Dominican Sisters of St. Catherine of Siena also had to flee their convent in Qaraqosh on Aug. 6 and are still among the exiled in Irbil, serving the displaced.) The mother general, Sister Maria Hanna, named (by Our Sunday Visitor) as one of the eight Catholics of 2014: I met her with the nuns.
I told the sisters my strong belief: that we should not count on the political leaders; they will do nothing for us. Because they look only for their own interests.
We should look for the one who helps us. This is the witness, the truth of history. We should look to the holy Eucharist. Nothing is stronger than prayer. All the weapons are killers. The only weapon that we believe is the life-giving and peace builder: Not one weapon is stronger than prayer.
Without prayer, there is no reconciliation between the Kurds and Arabs, between the Shiites and the Sunnis. So if they don’t have peace between themselves, how can we expect to have peace for them or through them? The only thing that we can and must count on is prayer.
Please go and pray: in front of the holy Eucharist; in front of the tabernacle with the silence of Jesus, we could hear the voice, “My peace is given to you.” This is my essential and strong belief that the map of work is prayer.
I tell them: Go pray with people, for the people. Jesus is strong enough to resolve our problems. Even if problems take a long time, we should not be afraid. Pray: The one who prays doesn’t fall down.
For me, Iraq is not just a country; it’s not geography; it’s not just history, but it is the history of my love with God. It’s a spiritual geography. I can see the Christianity of Iraq as one of the French historians said, the most holy piece of land on earth after Golgotha. Because this land has been watered with the blood of the thousands and thousands of martyrs and very strong lovers of Jesus Christ. That’s why I say it’s the jealousy of the devil, what happened.
But no matter what, we are strong, because we know in whom we have put our trust and in whom we believe.
Please pray for our people. They do need prayer. And these prayers will save us, surely, surely. All the iron gates made by politics, by religion, will be broken; all the Christians will be liberated like Peter, when he was in prison and the angel brought him (to safety).
I told them: If a Christian hurt a camel in Saudi Arabia, it would be a big problem. A small wall in Israel destroyed by the Arabs is a horrible thing, but if Christianity is uprooted, nobody cares. What is the media today? What is the politics? False witness. Why? Why doesn’t Israel say anything? Why doesn’t Saudi Arabia say anything? Why doesn’t Iran say anything? Why doesn’t America say anything?
It’s a storm of the force of the evil. But as Jesus was condemned and sent to die, we are an extension of Jesus. I’m sure God will show his arm one day.
I told them in my homily, “I came here to help you, but I became stronger because of you. I smell God here.”

19 gennaio 2015

Kurdistan, continua l’aiuto ai profughi

Luca Geronico

La morsa del gelo è arrivata puntuale a Erbil e in tutto il Kurdistan e ora sembra paralizzare anche la speranza. L’8 gennaio una vera tempesta ha imbiancato tutto fino alle montagne di Dohuk, lasciando fuori dal capoluogo iracheno neve e ghiaccio. L’ultimo rapporto dell’Ocha, l’ufficio per le emergenze umanitarie dell’Onu, mentre elenca gli esiti di un piano per l’inverno – la “winterizzazione” discussa in interminabili riunioni di coordinamento – dimostra pure la mancanza di risorse e tempo per garantire il minimo necessario per gli oltre 2 milioni di profughi in Iraq, più della metà nel Kurdistan iracheno. Da ottobre sono state distribuiti in tutto l’Iraq 200mila set di abiti invernali in più di 100 località impervie e nelle ultime settimane nel governatorato di Erbil 1.200 giacconi per bambini.
«Questi sono risultati importanti, ma del tutto insufficienti rispetto all’enorme numero di bambini e di famiglie le cui vite sono devastate ogni giorno dal protrarsi di questo terribile conflitto», ammette Maria Calivis, direttore Unicef per il Medio Oriente. Una affermazione che non solo per la sua organizzazione.
A tutte le famiglie rifugiate nel governatorato di Dohuk è stato versato un sussidio di 250 dollari per rispondere alle prime urgenze, mentre il kerosene e le stufe restano al momento la necessità più grande. Proprio oggi alla sede dell’Onu di Erbil è convocata una riunione per reimpostare l’organizzazione dei campi profughi. Un intervento non solo di supporto, ma pienamente strutturale per far passare l’inverno ad Ankawa Mall e negli altri nove campi raccolta dove opera direttamente Focsiv: «Le prime vittime sono gli anziani con disturbi dovuti all’età e alle difficoltà di vivere da oltre sei mesi in condizioni precarie, e i minori, soprattutto quelli nati sotto le stende o negli stalli dei campi di raccolta», afferma Terry Dutto direttore del progetto «Emergenza Kurdistan» della Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario.
La sottoscrizione promossa da Focsiv e Avvenire ha raggiunto in settimana i 217mila euro, avvicinando di molto il nuovo obiettivo di 260mila euro. Una commovente generosità popolare, che sosterrà un lavoro umanitario ogni giorno più  pressante. E iniziare a ricostruire un futuro. Con il 32% di sfollati ancora in abitazioni o ripari inadeguate e un piano di winterizzazione pieno di falle, non c’è da sorprendersi che più del 30 per cento della popolazione sia affetta da infezioni respiratorie.
«L’ambulatorio presso Ankawa Mall opera con medici volontari locali fornendo oltre 70 visite al giorno e si dichiara in grave carenza  di medicine. Proveremo a soddisfare almeno qualche richiesta». I farmaci si aggiungono ora alla distribuzione già in atto di kit igienico-sanitari per donne e bambini e al latte in polvere. Contro il freddo, oltre alla coperte e ai giacconi, il team Focsiv probabilmente dovrà anche pensare a stufe e a carburante. Ma questa è solo l’emergenza del presente, anche se l’annuncio del Pam di dover ridurre il sussidio alimentare di base a soli 25 dollari al mese per sfollato e di poterlo sostenere solo fino a febbraio, è come un incubo. Mentre si lotta per superare l’inverno e assicurare almeno il cibo fino a primavera, si devono dare risposte concrete «al senso di smarrimento delle persone che si chiedono cosa avverrà di loro». Per questo, continua Terry Dutto, si deve «impostare e favorire l’aggregazione dei giovani per momenti di recupero scolastico e tentare di essere propositivi nel processo di integrazione degli sfollati che sono in grado di lavorare».
Necessaria la collaborazione tra le diverse componenti della società locale anche per «trovare motivi comuni di convivenza con le comunità degli sfollati presenti in città». Un processo più che mai necessario nel medio-lungo periodo visto che sono imprevedibili i tempi della permanenza degli sfollati: «Una situazione che non può essere trattata con gli strumenti di una emergenza tradizionale con tempi più o meno definibili». Impossibile prevedere il rientro a casa, ma la permanenza in Kurdistan, che si può supporre di anni, deve essere sostenibile sia per chi è fuggito sia per chi accoglie. «Rispetto ad altre emergenza, vi è pure la una molteplice appartenenza sociale, linguistica e religiosa delle persone, che non si riscontra altrove». Il futuro del Kurdistan non può attendere.

Patriarca caldeo: Musulmani e cristiani uniti devono guidare la lotta al fondamentalismo


"I nostri fratelli musulmani devono assumere, per primi, l'iniziativa e promuovere una campagna che respinga ogni forma di discriminazione di natura confessionale".
È quanto ha sottolineato il patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako, intervenendo ad un convegno organizzato nel fine settimana a Baghdad dall'Iraqi Center for Diversity Management (Icdm). Il patriarca si rivolge agli oltre 1,6 miliardi di fedeli musulmani, in maggioranza moderati, sparsi nel mondo, invitandoli a promuovere un progetto congiunto volto a "smantellare l'ideologia fondamentalista" in ogni sua forma. Una proposta che, per avere successo, deve essere sostenuta e guidata proprio dagli stessi fedeli dell'islam.
Nel suo intervento, mar Sako parla del dramma dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive, dove circa 500mila persone  sono fuggite fra giugno e agosto dello scorso anno, in seguito all'avanzata dello Stato islamico, che ha fondato un Califfato e imposto la sharia. I cristiani che, assieme ad altre minoranze religiose, "un tempo erano maggioranza" hanno "legami profondi" col territorio; essi hanno contribuito - aggiunge mar Sako - alla costruzione dell'Iraq e allo sviluppo della stessa cultura islamica.
Queste comunità "oggi sono emarginate" e "sono state trattate in modo duro e brutale", tanto che oggi a Mosul e nella piana di Ninive "non vi è nemmeno un cristiano". Per il patriarca di Baghdad la minaccia più grande "non è solo il terrorismo dello Stato islamico" o di altre "organizzazioni terroriste", ma è l'ideologia "takfiri" che considera "miscredenti" gli stessi musulmani che non appoggiano il modo di pensare e agire, basato sulla violenza e la sopraffazione. Egli punta il dito contro "forze" che commettono violenze e sono incentrate su logiche di potere "coperte dal manto della religione".
Per superare uno dei periodi più difficili della storia dell'Iraq, della regione mediorientale e delle stesse minoranze cristiane, mar Sako propone un progetto comune incentrato su tre punti principali: costruire un'opinione pubblica islamica "aperta e illuminata", mediante "la revisione dei testi" religiosi e storici; a questo si aggiunge un'interpretazioni dei testi "appropriata", che metta al bando la logica della violenza; infine, la promozione di una "cultura dell'accettazione e della conoscenza reciproca", come "fratelli e cittadini" di una stessa nazione. In quest'ottica sarà essenziale il ruolo "delle autorità religiose e politiche" musulmane, per "vincere ogni forma di violenza".
Ringraziando i responsabili dell'Icdm a Baghdad per l'impegno nella promozione della "cultura della co-esistenza pacifica" e del "rispetto per diversità e pluralismo", mar Sako conclude ricordando che "non c'è altro futuro" che non sia quello di "pace, armonia e cooperazione". Un obiettivo comune a musulmani, cristiani, fedeli di altre religioni, e che deve essere sostenuto anche "dai media" che devono fornire informazioni e contenuti "rispettosi delle religioni" e della sensibilità dei credenti.