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12 dicembre 2014

Riuscirà l'attuale politica americana a battere l'Isis? Il parere del Patriarca dei siro-antiocheni, la minoranza più colpita dal male dello stato islamico

By Theologia

A giugno e ad agosto di quest’anno è accaduto, sotto i nostri occhi e con la nota dolente di un’assordante silenzio d’indifferenza internazionale, un esodo forzato dalle dimensioni bibliche. Più di 120 mila famiglie cristiane sono state costrette a lasciare tutto e ad abbandonare le terre di Mossul e Qaraqoshe, quelle terre di cui sono i residenti nativi e più antichi, per diventare rifugiati. La Chiesa siro-cattolica è stata di gran lunga la comunità più colpita da questo male causato dall’Isis.
Questa tragedia è stata il tema centrale del sinodo ordinario della chiesa siro-antiochena cattolica, conclusosi mercoledì 10 dicembre.
Abbiamo voluto incontrare S.B. Mar Ignatius Youssef III Younan, Patriarca di Antiochia e tutto l’Oriente per i siro-cattolici per parlare dei temi fondamentali del sinodo e per sentire la sua valutazione della politica, americana e internazionale, adottata per gestire questo dramma umanitario e geopolitico.
Sua Beatitudine, nel Suo discorso di apertura del sinodo, Lei aveva indicato che il sinodo avrebbe trattato il tema della formazione sacerdotale. Ci spiega il motivo per cui è stata fatta questa scelta, in un momento così critico e drammatico per la vostra chiesa?
Gli avvenimenti dolorosi che hanno colpito la nostra chiesa negli ultimi mesi sono stati il motivo principale che ci ha spinto a scegliere questo tema, e a discutere della nostra presenza e del nostro destino come chiesa sira nel medio oriente.
Come cristiani siri, siamo esposti attualmente a una grandissima sfida. I nostri sacerdoti si sono trovati improvvisamente in una situazione gravemente squilibrata. E abbiamo sentito l’esigenza di radunarci per studiare le modalità efficienti per affrontare l’attuale situazione.
Ad esempio, solo dall’eparchia del Mossul, sono fuggiti un vescovo e 25 sacerdoti. Tanti di loro vivono adesso con i rifugiati. Volevamo prendere in seria considerazione questa situazione difficile.

Lei ha paragonato il disastro avvenuto a Mossul alla tragedia che è accaduta un secolo fa a “Sowaiqat”. Ci può spiegare cos’è successo realmente?
Fino a giugno scorso, pativamo, come cristiani del nord dell’Iraq, una situazione precaria di insicurezza e mancanza di tutela ufficiale dello stato. Le minoranze pagavano il prezzo maggiore di quella situazione.
Nel mese di giugno, siamo stati letteralmente sradicati da Mossul. Eravamo più di 15 mila famiglie. Ma la tragedia maggiore è avvenuta ad agosto, quando ben 120 mila famiglie cristiane dalla Piana di Ninive sono state cacciate, dal giorno alla notte, dalle loro terre d’origine. Lì avevamo ben nove chiese.
Tra le altre minoranze, i cristiani costituivano il gruppo più grande. Eravamo il 40% della popolazione. In poche ore, la piana era svuotata dai cristiani. Un esodo tragico e sofferto.

Ha definito la chiesa siro-cattolica come una chiesa “testimone e martire dai tempi antichi”. Perché considera i siri come i più danneggiati da questa tragedia?
Ciò che è accaduto alla Piana di Nineve ha colpito i siri più di ogni altra minoranza, perché eravamo la maggioranza lì. Il nostro numero era di circa 60 mila persone. Ora che siamo a Kurdistan, non abbiamo eparchie di appoggio. Per cui siamo letteralmente degli sfollati.
A differenza dei fratelli caldei, che sono il maggior numero dei cristiani, i quali hanno il patriarcato di Babele, noi non abbiamo più strutture. Per questo, i nostri fedeli vivono in tende in una situazione di dolorosa precarietà.
Statisticamente, possiamo dire che – purtroppo – più di un terzo dei fedeli della chiesa siro-cattolica è stato sfollato ed è in diaspora. E solo Dio sa, quando tornano e se tornano.

Nel documento finale del sinodo, viene chiesto alla comunità internazionale di “accelerare l’operazione per liberare il Mossul e le città della Piana di Ninive”. Come valuta la politica internazionale attuale in Siria e Iraq?
Abbiamo lanciato un appello accorato alla comunità internazionale. Davanti alla tragedia che ci ha colpito, non possiamo che condannare chi ha contribuito alla sua genesi. È senza dubbio che questi criminali non sono nati dal nulla. C’è un progetto politico più grande che segue una politica machiavellesca, abusando dei deboli per realizzare meschini fini geopolitici.
Da qui, è dovere delle nazioni che hanno creato questa situazione mostruosa adoperarsi per liberare le terre che ci sono state rubate. È obbligo loro restituirci la nostra dignità e costituire una situazione di vita degna e sostenibile.

Come valuta gli attacchi aerei americani contro gli obiettivi dell’Isis? Sono sufficienti ed efficienti?
Ogni persona di buona volontà e minimamente oculata sa che questi attacchi aerei da lontano non sono sufficienti. I banditi di Isis non sono un esercito regolare, per questo si mimetizzano tra la popolazione e diventa realmente difficile colpirli. Essi, inoltre, hanno approfittato degli scontri interconfessionali (tra sunniti e sciiti) e raziali (tra arabi e curdi). Per cui, gli attacchi aerei, possono ferirli lievemente, ma non possono annientarli e neppure colpirli seriamente.
Il sinodo ha elogiato le dichiarazioni del Convegno di Al-Azhar avvenuto in Cairo il 3-4 di dicembre dove è stato dichiarato tra l’altro che “i musulmani e i cristiani in Oriente sono fratelli, fanno parte di un’unica civilizzazione e di un’unica nazione”. Che importanza riveste questa dichiarazione?
Come patriarchi e vescovi cristiani, abbiamo lungamente invitato i fratelli musulmani a radunarsi e a denunciare ufficialmente il terrorismo in nome della religione. E non solo, ma anche a combatterlo concretamente e a proteggere le minoranze, come quella cristiana.
L’iniziativa di Al-Azhar è veramente un segnale positivo. È stato affermato che il terrorismo in nome della religione non è parte dell’identità musulmana.
Speriamo che queste dichiarazioni abbiano un seguito pratico sul terreno della realtà, attraverso una richiesta rivolta agli stati per combattere i terroristi, e per lanciare una seria formazione alla tolleranza nei convegni religiosi, nelle moschee e nelle scuole.

Ieri è iniziata la vostra vista ad limina apostolorum. Cosa chiederete al Santo Padre durante i vostri colloqui?
Saremo una grande delegazione di circa 320 membri tra patriarca, vescovi, padri sinodali e sacerdoti. La nostra visita dal santo Padre è una visita filiale che vuole ribadire i legami di unità tra la sede d’Antiochia e quella di Roma, la Chiesa che presiede nell’amore, secondo la felice espressione di sant’Ignazio d’Antiochia.
In questa settimana che la nostra chiesa ricorda san Giovanni il Battista, desideriamo che Papa Francesco continui ad essere una voce che grida per la verità e per l’affermazione della giustizia. Desideriamo che prosegua la sua difesa per la causa dei cristiani in medio oriente, specie i siro-antiocheni perseguitati nel nord dell’Iraq.
Sono convito che questa visita sarà una fonte di bene e benedizione per noi, e un tocco di consolazione per i sofferenti della nostra chiesa.

Robert Cheaib è docente di teologia presso varie università tra cui l'Università Cattolica del Sacro Cuore, La Pontificia Università Gregoriana e la Facoltà Teologica del Teresianum. Svolge attività di conferenziere e di scrittore.