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23 dicembre 2014

«Qui è un incubo. Ma quest’anno abbiamo avuto il record di vocazioni»

By Tempi
Rodolfo Casadei

Le aiuole e i cortili di San Giuseppe e della residenza episcopale biancheggiano sotto uno spicchio di luna e una mezza dozzina di lampioni accesi. L’unico suono è il brusìo dei motori nelle strade intorno, arterie commerciali di Ankawa. I tremila profughi che per tre mesi sono stati la colonna sonora e il paesaggio umano di questi spazi ora silenziosi non ci sono più. I più fortunati sono sistemati in appartamenti, 5-6 persone per stanza. Altri sono alloggiati in freddi e umidi edifici in costruzione, in prefabbricati, addirittura ancora sotto le tende, però coibentate per l’inverno. Molti hanno fatto fagotto e sono partiti per l’estero: Turchia, Libano, Giordania, Europa. I cristiani stanno abbandonando l’Iraq, questa è la notizia purtroppo.
«Calcoliamo che siano espatriate una media di 70 persone al giorno dalla metà di agosto ad oggi. Lei mi chiede se la Chiesa fa qualcosa per farli restare? Io no di certo. Non li incoraggio né li trattengo. Perché non posso dare loro nessuna garanzia se restano qui. Devono decidere loro. Ad alcuni dico solo di pensarci bene: la vita è dura anche lontano da qui».
Le parole asciutte di Bashar Warda, vescovo caldeo di Erbil, sono un impasto di amarezza ed ironia. «Sono quattro mesi che non faccio più il vescovo. Coi tre vescovi di Mosul (quello caldeo, quello siriaco cattolico e quello siriano ortodosso – ndr) abbiamo creato il Comitato Iraqi Christians Aid, che si occupa dei bisogni materiali e umanitari dei 125 mila cristiani esuli dall’estate scorsa. Di essi, 13 mila famiglie (cioè un po’ più della metà del totale, ndr) si trovano ora sul territorio della mia diocesi. Perciò quello a cui ogni giorno io e i miei collaboratori dobbiamo pensare sono acqua, alloggio, vestiti, manutenzione, infrastrutture, medicine, e come aiutare la gente ad avere una vita migliore. I primi due mesi in particolare sono stati un incubo, qui in casa mia c’erano 700 famiglie. Adesso siamo riusciti, grazie agli aiuti, a trovare loro una sistemazione in appartamenti presi in affitto o in case prefabbricate».

Fra la metà di agosto e il 10 dicembre scorso il Comitato dei quattro vescovi ha ricevuto aiuti per oltre 6 milioni di dollari. Un quinto di tutta la cifra è arrivata dalla Conferenza episcopale italiana, un sesto da papa Francesco, poi forti donazioni da Aiuto alla Chiesa che soffre, AsiaNews e dalla diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, di gran lunga la più munifica fra le diocesi italiane.
«Poi ci sono gli aiuti gestiti dalla Caritas, che concorda programmi con noi ma agisce anche autonomamente. E gli aiuti dei governi stranieri attraverso gli enti dell’Onu, di cui non conosco cifre e dettagli. Dal governo di Baghdad non è arrivato nulla. Adesso stanno facendo qualcosa per le scuole, ne hanno aperte 17 per i figli degli sfollati». Quello dell’educazione è un dramma nel dramma dell’Iraq settentrionale: la maggior parte delle scuole sono rimaste occupate da profughi cristiani e yazidi fino a poche settimane fa, l’anno scolastico per molti non è mai cominciato. Ora un progetto di Aiuto alla Chiesa che soffre ha portato all’apertura di una scuola per profughi ad Erbil, e dopo le vacanze di Natale altre sette dovrebbero aprire i battenti a Erbil e Duhok, le località del Kurdistan dove vive la maggior parte degli sfollati.

Monsignor Warda sorride solo quando, chiedendogli della vita della Chiesa in questi tempi difficili, gli si fa una domanda sulle vocazioni sacerdotali. Lui è stato rettore del seminario caldeo prima di diventare vescovo. «Quest’anno abbiamo avuto 9 ingressi in seminario, un record da molto tempo a questa parte. Negli anni precedenti caldei e siriaci sommati insieme non hanno mai totalizzato più di 3-4 vocazioni sacerdotali annuali. Invece in questo anno terribile i giovani entrati in seminario sono 9! Davvero Dio opera in un modo misterioso».

Circa quello che dirà nella sua omelia di Natale ha già le idee chiare. «La pace è il dono del Natale di Nostro Signore», dice Warda. «Pace dentro di sé, pace col vicino, pace con Dio. La pace non è il risultato della guerra, come si legge nella lettura da Isaia, ma Dio promette che sarà Lui a inviare la Pace sulla terra».
«Ci stiamo preparando al Natale nella sofferenza, ma con il conforto della preghiera. È la prima volta che passeremo il Natale lontano dalle nostre case e dalle nostre chiese, come sfollati e rifugiati».

È quanto ha dichiarato da Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, monsignor Amel Shamon Nona, arcivescovo di Mossul dei Caldei, dove da qualche mese si è rifugiato in seguito all’avanzata delle milizie del cosiddetto Stato islamico (Is). Erano i primi giorni di agosto quando venne costretto a lasciare Mosul, assieme alla sua gente, per non convertirsi, per non rinunciare alla fede. Da allora sono state chiuse le chiese, altri luoghi di culto sono stati distrutti, trasformati in prigioni oppure occupati dai militanti islamici.
«Qui a Erbil — ha raccontato l’arcivescovo al Sir — e più in particolare nel sobborgo cristiano di Ankawa, e in altri due villaggi limitrofi, ci sono circa 12.000 famiglie cristiane rifugiate. Fuori Erbil, invece si stimano ce ne siano altre 8.000. Cerchiamo di aiutare tutti grazie al sostegno della Santa Sede, di tante organizzazioni caritative, come Aiuto alla Chiesa che soffre e di numerose Chiese. Tra queste un ringraziamento particolare va alla Conferenza episcopale italiana che ci sostiene attraverso la Caritas, la quale lavora a stretto contatto con quella irachena. Molte di queste famiglie vivono in strutture messe a disposizione dalle istituzioni e dalla Chiesa, in tende e ricoveri di fortuna». Nonostante la precarietà, ha spiegato monsignor Nona, «si comincia a notare qualche timido segno di festa grazie anche a tanti giovani volontari di questa zona. L’augurio è regalare un sorriso a tutta questa gente. Stiamo preparando doni per i bambini per alleviare in qualche modo disagi e sofferenze. 
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