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9 ottobre 2014

Perché sono andato in Iraq

By Oasis
Marialaura Conte


Dall’amicizia personale tra l’arcivescovo di Lione e il patriarca di Babilonia dei caldei è nato uno scambio di incontri e un gemellaggio tra la diocesi francese e Mossul. Una modalità concreta di aiuto per i cristiani orientali e un monito all’Occidente a non dimenticarli.
Intervista al Card. Pierre Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione
 
Eminenza, alcune settimane fa Lei è andato in Iraq. Che cosa l’ha portata laggiù in questa fase storica così pericolosa? Qual è il legame tra la sua diocesi e l’Iraq?
All’origine del legame c’è una visita: il Patriarca dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, è venuto a Lione per partecipare a un dibattito all’Università Cattolica intitolato “La vocazione dei cristiani d’Oriente, sfide attuali e future nel loro rapporto con l’Islam”. Poiché era alloggiato a casa mia insieme al suo successore all’arcivescovado di Kirkouk, Mons. Yousif Thomas Mirkis, abbiamo stretto in pochi giorni un legame di fraterna amicizia nelle cose più semplici: durante i pasti, nei momenti di preghiera, durante la messa nella chiesa primaziale di Saint-Jean. Dal 10 giugno, giorno della presa di Mossul, quando sono iniziati i dolorosi fatti che ben conosciamo, ho iniziato a telefonare al Patriarca regolarmente per avere notizie e per comunicargli il nostro sostegno e la nostra preghiera. Una sera di luglio ho avanzato la proposta di fargli visita nel suo Paese e lui mi ha risposto immediatamente, con entusiasmo, che questo incontro sarebbe stato il più bello dei regali: «Ci sentiamo talmente dimenticati!». Questo è il motivo del nuovo gemellaggio tra Lione e Mossul, perché non si dimentichi.
I media ci parlano spesso dell’infinita sofferenza dei rifugiati che devono abbandonare le loro case, il loro lavoro, i villaggi. Ci può raccontare cos’ha visto in Iraq? Quale incontro l’ha colpita di più?
Ho scoperto la bellezza e allo stesso tempo il prezzo della testimonianza cristiana. Nelle città che abbiamo visitato in quei quattro giorni ho ascoltato centinaia di testimonianze, tutte diverse a causa delle circostanze personali e familiari, ma che dicevano in fondo la stessa cosa: «La mia fede è più preziosa della mia casa, della mia città e dei miei beni materiali». Nessuno di coloro che abbiamo incontrato ha rinnegato, né tradito Gesù Cristo, mentre per noi questa è la tentazione quotidiana, a cui avevano ceduto anche Pietro e gli apostoli durante la Passione.
L’Europa è spesso distratta, presa dai suoi problemi economici, politici ecc. Tuttavia le rivoluzioni all’inizio, l’instabilità e poi la guerra in Medio Oriente dicono qualcosa all’Occidente, nonostante spesso non voglia ascoltare. Quali sono le provocazioni più forti che ci arrivano da quei Paesi?
Questa settimana, come autorità cristiane, ebraiche e musulmane della città di Lione, e non solo, abbiamo firmato un appello affinché nessuno cada nella trappola tesa dai terroristi, i quali darebbero qualsiasi cosa per vedere tutte le forze dell’Islam levarsi contro l’Occidente, creando così, in un certo senso, una nuova guerra di religione. Con quest’appello ci siamo voluti impegnare per costruire una fraternità, a prescindere dalle nostre convinzioni e dalla nostra fede e per condividere il desiderio di vivere insieme e di riflettere sul nesso tra ragione e fede, questione tanto cara ai papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
L’autoproclamatosi Stato Islamico ha attirato l’attenzione mondiale ancora una volta sulla violenza “in nome di Dio”. In questa situazione qual è il rapporto vero tra religione e violenza?
Sono rimasto molto colpito da ciò che Papa Benedetto XVI ha scritto nel suo libro Luce del mondo. Aveva visto giusto nell’esortare ciascuno di noi all’autocritica sul proprio rapporto con la violenza: «È importante che manteniamo una relazione intensa con tutte le forze islamiche desiderose di dialogare e che possa avere luogo un’evoluzione delle coscienze dove l’Islamismo associa pretesa di verità e violenza». Infatti, la fede senza ragione è capace delle stesse atrocità di cui è capace la ragione senza fede.
Il patriarca Sako ha criticato con parole chiare e coraggiose l’azione militare guidata da Obama. Ha parlato di un gioco oscuro, dal momento che le bombe causeranno molte vittime civili senza però frenare l’avanzata degli jihadisti. Tuttavia il Patriarca stesso e i Vescovi del Paese avevano fatto appello all’Occidente perché intervenisse. Quale deve essere la giusta risposta a quest’appello?
Una cosa è certa. Il patriarca ripete che non si tratta di aiutare i cristiani a lasciare il Paese, come suggeriscono a volte alcuni anime generose, ma di aiutarli a restare perché è un loro diritto. Un professore musulmano, che potrebbe ricevere postumo, con il patriarca, il Premio Sakharov per la Pace, è morto per essere intervenuto a favore di una famiglia cristiana cacciata da Mossul dicendo: «Lasciateli stare, sono qui con noi. Sono a Mossul da più tempo di noi!». Durante la guerra nei Balcani, Giovanni Paolo II aveva sostenuto che l’uso della forza non è sempre contrario alla pace e che lasciar degenerare alcune situazioni con il pretesto di non utilizzare le armi poteva essere vigliaccheria e avere conseguenze ancora più gravi del ricorso alle forze armate. Il pacifismo rischia a volte di andare contro la pace stessa. Io non sono un politico, né uno stratega ma è chiaro che deve essere condotta un’azione energica in Iraq e in Siria, perché le operazioni aeree non saranno più sufficienti. Del resto non si tratta solamente di una questione militare.
Nel suo recente viaggio in Albania, Papa Francesco ha indicato il Paese come esempio da imitare di fraternità tra le diverse comunità religiose. Su cosa si può fondare questa fraternità in Europa, dove parole come tolleranza, dialogo e integrazione sono ormai vuote? Da dove si può ripartire?Da molto tempo ormai, credo che si debba decisamente superare la tolleranza (una parola che deve la propria rispettabilità all’Editto di Nantes del 1598, chiamato dal re Enrico IV “Editto di tolleranza”) e coltivare piuttosto uno spirito di ascolto e di stima reciproca. Da questo può nascere una reale ammirazione nei confronti dei credenti di altre religioni, che è la condizione per un vero progresso nell’incontro e nel dialogo interreligioso. Io sono edificato dal desiderio di Dio di alcuni musulmani nel loro legame con la preghiera, con il digiuno e con la condivisione. Il professore musulmano morto a Mossul, a mio avviso è un vero martire. Se anche non fosse morto per Gesù Cristo, è morto comunque per difendere dei cristiani, questi altri Cristo che siamo diventati attraverso il sacramento del battesimo e della cresima. Infine, io credo che la Misericordia debba diventare un concetto cardine per favorire l’incontro tra le grandi religioni monoteiste. La Misericordia è l’origine e l’apice della nostra vita. Gli ebrei sono un popolo eletto esattamente per questo: essere i servitori della misericordia per tutte le nazioni. I cristiani trovano questa parola anche in tutto il Nuovo Testamento e vedono riassunta l’intera epopea biblica in una frase essenziale, pronunciata dalle labbra della Vergine Maria, nel cuore del Magnificat: «Di generazione in generazione la Sua misericordia si stende su quelli che lo temono» (Lc 1,50). Anche i musulmani, quando pronunciano il nome di Dio, aggiungono immediatamente: «Clemente e Misericordioso».