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20 ottobre 2014

Galantino: diamo un casa ai profughi iracheni

By Avvenire
Ivan Maffeis

«Quello che ho toccato con mano in questi giorni ci consegna la responsabilità di una risposta pronta e diversificata, in stretta continuità con l’appello alla preghiera che, come Chiesa italiana, abbiamo lanciato ad agosto a tutte le nostre comunità, a fronte delle persecuzioni che si sono abbattute sui cristiani e sulle altre minoranze religiose».
Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei – in Iraq da lunedì 13 a giovedì 16 ottobre con una piccola delegazione, fra cui il direttore di Caritas Italiana, don Francesco Soddu – scandisce le parole sottovoce, uscendo dall’“Ankawa Mall”, un magazzino in cemento armato ancora in costruzione, in cui da un paio di mesi hanno trovato un primo rifugio migliaia di persone. La struttura è una delle 27 che a Erbil, nel nord dell’Iraq, dalla mattina alla sera sono state trasformate in campo profughi per migliaia di famiglie in fuga dai terroristi dell’autoproclamato Stato islamico, guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, sedicente successore di Maometto.
Monsignor Galantino, quando parla di “risposta diversificata” a che cosa pensa?

Innanzitutto, al sostegno immediato con cui aiutare questa gente ad affrontare la prima emergenza. Va in questa direzione il milione di euro messo a disposizione dalla Presidenza della Cei per sostenere la Chiesa locale nel predisporre agili prefabbricati in pvc che consentano di uscire dalle tendopoli e quindi di affrontare il rigore dell’inverno. I vescovi stanno predisponendo inoltre quattro scuole, nelle quali i bambini e i ragazzi qui sfollati possano ritrovare anche in questo modo un minimo di normalità. Contestualmente, ci siamo impegnati a lanciare attraverso Caritas Italiana una sorta di gemellaggio tra diocesi, parrocchie e famiglie italiane con le famiglie dei profughi: mettendo a disposizione 140 euro al mese saremo in grado di assicurare un minimo di sicurezza a una famiglia media.
Incontrando le autorità sia ecclesiastiche che governative lei si è impegnato anche a un intervento sul fronte culturale.

La formazione è il terzo livello del nostro intervento. Accanto ai bisogni primari è necessario affrontare la creazione di strutture che rafforzino l’identità e l’appartenenza cristiana in maniera ben diversa da quanto sta facendo una parte del mondo islamico. Investire in cultura significa non solo offrire a tutti la possibilità di accedervi, ma rispondere anche a un’esigenza impellente: è toccante incontrare nei campi profughi giovani universitari che, a dispetto del fango e della confusione, sono chini sui libri a preparare quell’esame che non hanno potuto sostenere nella loro città. Per questo ho garantito ai vescovi, al sindaco, al ministro per gli Affari religiosi i 2 milioni e 600mila euro per la costruzione di un’Università cattolica a Erbil. Saranno stanziati subito dal nostro Servizio per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo, su fondi dell’Otto per mille.
Ha accennato alla Chiesa locale: che impressione le ha fatto?

Ho trovato una Chiesa che è in prima linea nell’accoglienza e nella gestione dell’emergenza, con un servizio che le è riconosciuto da tutti. Dagli stessi profughi emerge un sentimento di profonda riconoscenza per questa generosità intelligente e sollecita di cui sono testimoni e primi beneficiari. Tra l’altro, fra loro ci sono parroci che hanno seguito le loro comunità anche nell’esilio e ora spendono le loro giornate tra tende e box di fortuna. Uno di loro, padre Paolo, fuggito da Kirkuk, mi ha detto: “I miei cristiani sono venuti qui, in quale altro posto potevo pensare di andare io?”. Così hanno fatto il vescovo caldeo di Mosul e quello siro-ortodosso di Qaraqosh, i cui episcopi sono stati occupati dai terroristi: oggi hanno trasferito la loro curia nei pochi metri quadrati di un container, accanto a quello del pronto soccorso e della farmacia. Qui capisci cosa significhi essere pastori con “l’odore delle pecore”, come raccomanda papa Francesco.
Di tale pastorale se ne respirano i frutti fra la gente?

Basta entrare nei campi: ogni tenda, ogni piccola struttura, pur spoglia pressoché di ogni cosa, non manca di un crocifisso o di un’immagine mariana, di un segno religioso appeso alla parete o collocato su un supporto di fortuna. E che dire dei giovani che, in una simile condizione, a sera si riuniscono e preparano i canti per la celebrazione della Messa? O dell’affetto per il Papa, al quale tutti indirizzano parole di gratitudine, insieme all’invito a far loro visita? Come non rimanere coinvolti dalla donna che ti si para davanti per dirti: “Porti al Santo Padre il messaggio che noi gli vogliamo bene, e che rimarremo fermi nel Vangelo per il quale oggi stiamo pagando un prezzo così alto”?
Oltre alle necessità materiali, quali bisogni le hanno manifestato i profughi?

Vivono un desiderio struggente di tornare alla loro terra, anche se sono consapevoli che le loro abitazioni sono state requisite e depredate dai jihadisti o – e questo fa ancor più male – dai vicini di casa, che hanno potuto rimanere proprio perché musulmani. Anche immaginando un improbabile ritorno, non sarà facile ricostruire la convivenza sociale.
Negli incontri con le diverse autorità che idea si è fatto della situazione complessiva?

Si tocca con mano una profonda incertezza politica, per usare un eufemismo. In questo periodo vengono al pettine in maniera drammaticamente violenta tutte le contraddizioni tenute a bada dal regime dittatoriale di Saddam Hussein e mantenute in equilibrio dagli interessi delle potenze sia occidentali che del mondo arabo.