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1 settembre 2014

«Questi jihadisti non vogliono solo occupare e razziare, vogliono cancellare tutto quello che c’era prima di loro»

By Tempi
Rodolfo Casadei

Padre Gabriel alza lo sguardo verso la candida Madonna incoronata che regge Gesù bambino sul suo braccio sinistro. Incastonata in una cappella del colore della pianura d’estate e protetta da una finestra dalle cornici bianche, sovrasta il cortile d’ingresso del monastero di Nostra Signora delle Messi ad Alqosh.
Il superiore dei monaci antoniani intristisce gli occhi e le labbra:
«Non riesco proprio a pensare che domani Daesh potrebbe impadronirsi di questo monastero».
«Se dovesse succedere, li ricacceremo via»,
lo confortano in coro i presenti.
Fino alla notte fra il 6 e il 7 agosto, vigilia della festa della Trasfigurazione, Nostra Signora delle Messi era il più grande monastero cristiano dell’Iraq coi suoi 11 monaci e l’eredità di una storia secolare, quella del monastero di sant’Ormisda che sorge due chilometri più in su, aggrappato a un fianco del monte Bayhidhra. Si tratta del convento che promosse la ricongiunzione fra la Chiesa assira e quella cattolica, culminata nella creazione della Chiesa caldea in comunione con Roma nell’anno 1553, e che oggi è utilizzato solo per alcune cerimonie religiose. Prima e dopo di allora Alqosh e i suoi due monasteri sono stati assaliti, saccheggiati e occupati innumerevoli volte, da parte di mongoli, tartari, curdi, ottomani, persiani, arabi e altri ancora, sempre con centinaia di morti. Stavolta sono stati evacuati nottetempo senza perdite di vite umane e senza troppi danni materiali, e tuttavia il sentimento dominante è quello di una catastrofe imminente irreversibile: l’esodo permanente e l’estinzione definitiva di tutti i cristiani dall’Iraq.
La notte della vigilia della Trasfigurazione tutta la linea difensiva curda nella pianura di Ninive, da Karamlish a oriente fino a Telkeff a occidente, è arretrata sotto la pressione dell’avanzata degli armati dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che tutti qui chiamano Daesh, dal suono delle lettere arabe che compongono l’acronimo. Centomila cristiani sono fuggiti nel massimo disordine verso le città curde di Erbil, Duhok e Zakho, dove tuttora si trovano, mentre le loro proprietà venivano occupate o razziate. Alqosh non è stata presa dai jihadisti dell’Isil, ma la sua popolazione – 8 mila residenti e 3 mila profughi di varia estrazione religiosa provenienti da Mosul e Telkeff in varie ondate – si è dileguata alla  massima velocità. Il 14 agosto, quando abbiamo visitato insieme all’abate il monastero e vi abbiamo pernottato, ad Alqosh c’erano soltanto 100 uomini armati e una donna (la candidata cittadina, non eletta, alle elezioni politiche dell’aprile scorso): il fronte si trovava appena sei chilometri più a sud, in direzione di Mosul, all’altezza della cittadina di Tel Eskof. Alqosh sembrava una città fantasma come quelle che si vedono nei film sugli zombie o su calamità fantascientifiche.

La fuga nottetempo
«Siamo fuggiti a mezzanotte con le auto e dopo aver caricato i 18 bambini dell’orfanotrofio sulla loro corriera, senza poter prendere gli archivi storici con noi», racconta padre Gabriel. «Avevo le lacrime agli occhi».
Adesso sta a Zakho, dove ha sistemato i confratelli e gli orfani nelle due case della sua famiglia. Trova anche il tempo e i mezzi per assistere i bambini degli yazidi, che a migliaia hanno invaso i parchi e le scuole della città curda ai confini con la Turchia fuggendo anche loro dai villaggi della pianura e della montagna. E fa avanti e indietro fra Zakho e il monastero. «Questa invasione e questa cacciata, che io considero la conseguenza ultima delle politiche degli americani nel Medio Oriente in tutti questi anni, sono diverse da quelle del passato. Questi jihadisti non vogliono solo occupare e razziare, vogliono cancellare completamente tutto quello che c’era prima di loro». Racconta del monastero di san Giorgio alle porte di Mosul, appartenente anch’esso all’ordine antoniano. All’inizio i capi del Daesh avevano fatto sapere che nulla sarebbe stato toccato, e che in caso di danni avrebbero pagato loro dieci volte il valore delle cose rubate o distrutte. Avevano messo due uomini di guardia al cancello. Poi una mattina le guardie non si sono presentate. Qualche giorno dopo la statua della Vergine nel cortile era a terra in pezzi e al posto della croce in cima alla cupola c’era la bandiera nera dello Stato islamico. Da allora nessuno sa nulla di quello che è stato fatto o non fatto al monastero.
Per saperne di più sulla Mosul dell’anno zero del Califfato basta andare nei cortili e presso le altre strutture del compound della cattedrale caldea di Erbil, san Giuseppe. La maggioranza dei 3.060 sfollati cristiani che affollano le aule della scuola parrocchiale, le aiuole, le tende sui prati, i prefabbricati e il perimetro esterno delle pareti della chiesa provengono da Qaraqosh, ma un certo numero sono arrivati da Mosul dopo la scadenza dell’ultimatum ai cristiani del 20 luglio scorso che lo Stato islamico aveva fatto dare attraverso gli altoparlanti delle moschee: o la conversione all’islam, o il pagamento della tassa di protezione e sottomissione (pari a 250 dollari mensili) o la morte. Per ingraziarsi i residenti il Califfato sta distribuendo benzina a prezzi irrisori fatta arrivare dalla Siria, dove l’organizzazione controlla pozzi petroliferi e raffinerie, ma nella maggior parte della città mancano acqua ed elettricità.

Vietati il fumo, l’alcol e i jeans
In compenso sono stati emessi decreti molto dettagliati che vietano il fumo, l’alcool, capi di abbigliamento come i jeans e acconciature dei capelli non in linea con la tradizione islamica, che li esigerebbe lunghi e abbinati alla barba nel caso degli uomini. Quanto alle donne, niqab (sarebbe l’abito che copre integralmente il corpo lasciando appena una fessura per gli occhi) per tutte. Che i jihadisti abbiano il progetto di riportare le lancette della storia a istituzioni vigenti nel passato dei primi secoli dell’islam lo si capisce da episodi come quello dell’asta pubblica di centinaia di donne yazide al mercato di Nakkasa, uno dei più importanti di Mosul. Secondo testimonianze provenienti dalla città per via telefonica, Daesh ha reintrodotto la schiavitù, mettendo in vendita sulla pubblica piazza le donne yazide catturate in varie località. Si racconta che un musulmano di buon cuore abbia acquistato tre di queste disgraziate pagando 160 dollari per ciascuna, solo per poterle liberare e restituirle alle famiglie. Altri acquirenti sembrano essere stati mossi da ben altre motivazioni. Una cosa poco nota è che a Singar, capitale dello yazidismo in Iraq, esisteva anche una piccola comunità siriaca ortodossa di 100 famiglie. È verosimile che anche donne cristiane siano state sequestrate e poi messe in vendita come schiave insieme alle yazide. Altro dato di fatto che fatica a filtrare in Europa è che a Mosul e a Qaraqosh risiedono ancora singoli cristiani e addirittura famiglie cristiane, che per vari motivi non hanno voluto abbandonare la propria dimora. Ma che non escono di casa (consumano le provviste di riserva nella speranza di tempi migliori) o dal loro quartiere. Non pagano la jizah (la tassa per i cristiani) solo perché Daesh non ha ancora organizzato gli esattori o perché vivono in quartiere controllati da altri gruppi islamici estremisti, che gli uomini di al Baghdadi per il momento non intendono sfidare. Le altre notizie che arrivano dalla Piana di Ninive parlano di razzie in grande stile in corso o in preparazione ai danni delle proprietà dei cristiani e degli yazidi lasciate sul posto, alle quali si associano musulmani sunniti arabi dei villaggi vicini. «Tanti stanno fiancheggiando Daesh non per ragioni politiche, ma perché vogliono prendere parte ai saccheggi dei nostri beni: purtroppo le cose stanno così», spiega un profugo.
È per questi fatti e altri ancora che i profughi della cattedrale ai quali si pone la domanda sul futuro rispondono tutti allo stesso modo: «Vogliamo andarcene per sempre da qui, va bene qualunque paese europeo». E chi ha deciso di rimanere prende quelle che a lui sembrano precauzioni.
Raphael è il giovane monaco incaricato di fare il guardiano del monastero di Alqosh per tutto il tempo che durerà la crisi. Voce gentile e fisico segnato dall’obesità, di primo acchito non lo prendereste per un monaco: indossa una t-shirt mimetica, sulla spalla porta un kalashnikov e una cartucciera gli attraversa l’opimo ventre. Dorme di giorno e sta di sentinella tutta la notte su e giù per i cortili e le scale del convento. «Se Daesh deve entrare qui – spiega – preferisco che credano che io sia una guardia della milizia di paese (ce ne sono un certo numero che proteggono il monastero anche di questi tempi – ndr) piuttosto che il monaco che sono in realtà: sono convinto che sarei trattato meno duramente».
A similitudine di padre Raphael, la situazione della Chiesa in Iraq è caratterizzata da una serie di paradossi: è sull’orlo dell’espulsione dal paese e contemporaneamente al centro dell’attenzione internazionale; la sua dimensione quantitativa è in costante discesa mentre le risorse che si trova a dover gestire sono in impetuosa ascesa; è odiata intensamente dai jihadisti e rispettata da un numero crescente di musulmani; vive intense esperienze di ecumenismo della carità ma anche divisioni e incertezze relative al da farsi. Quest’ultimo paradosso è quello più difficile da comporre. Il Patriarca caldeo Louis Sako e i vescovi di tutti i riti hanno costantemente ripetuto che bisogna fare il massimo perché i cristiani non abbandonino il paese, ma la base li ha contestati giudicando il loro obiettivo irrealistico a fronte dei duri dati di fatto. C’è chi insiste sull’immagine della Chiesa come punto di riferimento di un Iraq unitario e chi suggerisce che si debba collocare sotto l’ala protettrice curda, l’unica disponibile e dotata di una qualche forza; molti non credono più che sia possibile esistere come cristiani in questa parte del mondo e chiedono che le Chiese irachene semplicemente aiutino i loro fedeli ad emigrare. Questa è, purtroppo, l’opinione della totalità della gente comune. Ultimamente il Patriarca caldeo e i vertici di tutte le Chiese della regione di Mosul si sono trovati d’accordo nell’invocare un intervento militare internazionale che metta insieme Usa, Europa e Lega Araba con l’obiettivo di spazzare i jihadisti fuori dalla piana di Ninive e dintorni.

La solidarietà interreligiosa
Priva di ombre, invece, la vicenda relativa alla solidarietà fra le Chiese, fra i cristiani dei vari riti e fra i cristiani e persone di altre religioni. Le pertinenze della cattedrale caldea di Erbil occupate da fedeli in grande maggioranza di rito siriaco cattolico originari di Qaraqosh sono un segno eloquente della capacità di solidarietà di una Chiesa verso un’altra; là dove era possibile i cristiani si sono aperti e hanno accolto i più lontani e diversi: ad Alqosh, cittadina interamente cristiana che per la sua storia rappresenta una sorta di Vaticano della Chiesa caldea, sono stati ospitati in scuole e strutture varie, prima dell’offensiva del 6-7 agosto che ha costretto tutti a fuggire, profughi di diversissima estrazione: turcomanni sunniti e sciiti, arabi sciiti, shabak (un gruppo etnico a sé perlopiù sciita), perfino alcuni arabi sunniti. Poi merita di essere segnalato il fenomeno della solidarietà di molti musulmani nei confronti dei cristiani, che ha trovato espressione nelle manifestazioni dove sunniti e sciiti di Baghdad hanno mostrato cartelli con la scritta “io sono cristiano” e in gesti come quelli della giornalista musulmana irachena che ha presentato il suo notiziario su una tivù libanese con una croce al collo. A questi andrebbero aggiunti tanti episodi di aiuto ai profughi da parte di vicini musulmani. Molti fuggiaschi della Piana di Ninive riescono ad ottenere notizie circa la loro casa e circa parenti lasciati dietro grazie alla silenziosa opera di collegamento di amici musulmani.
In controtendenza col pessimismo che fa dire a tanti cristiani iracheni che è ormai giunto il momento di abbandonare in massa il paese, merita di essere conosciuta la notizia dell’inaugurazione di una statua della Vergine Maria alta tre metri eretta nella rotonda principale di Ankawa, il quartiere a maggioranza cristiana di Erbil. È una classicissima Madonna con l’abito bianco e il manto azzurro, la testa coronata, le braccia allargate e lo sguardo rivolto verso chi sta in basso. Sta su di una larga colonna degli stessi colori, circondata da quattro colonnine azzurre sottili. Nella posizione in cui è stata collocata, a poche centinaia di metri dai luoghi che in questo momento ospitano migliaia di profughi della piana di Ninive, sembra messa lì per proteggere gli sventurati da ulteriori mali. È stata inaugurata la sera della festa dell’Assunzione, di fronte a migliaia di persone festanti. Quella notte i caccia americani hanno lanciato un attacco e colpito obiettivi in quattro località a sud di Alqosh: Mahmoudia, Zumar, Telkeff e Tel Eskof, che sta a una manciata di chilometri dal monastero di Nostra Signora delle Messi. L’obiettivo strategico è quello di recuperare il controllo della grande diga di Mosul, ma il primo risultato è stato quello di allentare la pressione su Alqosh. Per molti è l’inizio del contrattacco che solo può salvare il persistere di una presenza cristiana in Iraq. Chissà cosa ha pensato quella notte padre Raphael, scrutando i bagliori nell’oscurità e impugnando istintivamente il suo mitragliatore. Sotto quel cielo di tenebre e luci siderali che chi ha pernottato ad Alqosh la notte precedente a quella dell’attacco ricorda come la più imponente muta preghiera del Creato mai ascoltata.