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19 settembre 2014

Cristiani ad Erbil. Padre Douglas Bazi: Il nostro futuro sono i bambini. Salviamoli!

By Baghdadhope*
Padre Douglas Bazi, sacerdote caldeo, è uno che nella vita ne ha viste tante. Nato nel 1972 da bambino ha visto la guerra contro l'Iran ed ha vissuto sotto il regime che lo ha controllato fino al 2003 passando per la guerra del 1991 ed i tragici anni dell'embargo internazionale. Una volta "liberato" dagli americani ha condiviso con altri iracheni esperienze terrificanti: gli hanno sparato, hanno fatto esplodere una bomba a fianco della sua chiesa e lo hanno rapito per 9, terribili, giorni. Ha vissuto nella capitale irachena le drammatiche ondate di violenza che hanno colpito i cristiani nel 2004, nel 2006 e nel 2010 e dal 2013 vive e lavora nel Kurdistan iracheno. Dal 2003 ha anche molto viaggiato ed ad onor del vero ha rifiutato di sistemarsi in un paese europeo dove sarebbe stato accolto a braccia aperte perchè: "mi manca la mia gente, mi manca il mio paese" diceva. 
Quel paese cui, a differenza di molti, è sempre tornato ma che ora sente meno suo.
Padre Bazi è responsabile ad Ankawa di due centri che accolgono i cristiani che sono sfuggiti dalle violenze dell'IS.
Baghdadhope lo ha intervistato.
"Centri"
e non "campi" specifica e "parenti" e non "rifugiati" perchè "parole come 'centro' e 'rifugiato' fanno pensare a stranieri mentre invece è la nostra gente, la nostra famiglia." 

Il centro del Santuario di Mar Eliyya ospita 214 famiglie mentre quello chiamato Shlama Mall (Shlama significa pace in aramaico) che si trova vicino alla chiesa di San Giuseppe ne ospitava 111 fino a pochi giorni fa qunado si è riusciti a trasferirne 60 in case prese in affitto. Se si considera una media di 5 persone per famiglia il conto è presto fatto: quasi 1650 persone la maggior parte dovrà affrontare l'inverno nelle tende.
In entrambi i centri, pur con le ovvie difficoltà e le differenze, la situazione è, secondo Padre Bazi, "sotto controllo" .
Nel centro di Mar Eliyya non mancano cibo, medicine per le quali possono anche rivolgersi alla vicina Ankawa Clinic e medici che assistono le persone in un piccolo caravan. I "parenti" come preferisce chiamarli il sacerdote, dormono tutti sotto le tende, e nei primissimi giorni dopo il loro arrivo all'inizio di agosto, quando il centro non era ancora organizzato, hanno potuto contare sulle famiglie cristiane che vivevano già in città che li hanno nutriti, vestiti, ospitati ed offerto loro bagni e docce, aiutati anche dalla comunità cattolica di lingua inglese per il quale Padre Bazi celebrava e celebra la Messa. Ora bagni e docce sono nel centro e bastano per tutti così come il cibo fornito per tutti e due i centri all'80% dalla diocesi caldea di Erbil retta da Mons. Bashar Matti Warda (diocesi che sostiene come dichiara Padre Bazi la maggior parte dei 26 centri nel suo territorio) e per il 20% dalla generosa comunità cristiana di Ankawa. 
A descriverlo così il centro sembra un luogo di disagio, certo, ma anche senza problemi, che invece ci sono, specialmente per quanto riguarda il futuro di quelle persone. "Ogni mattina c'è una riunione" spiega Padre Bazi "con l'altro sacerdote che opera nel campo, Padre Danial al Khoury dell'Antica Chiesa dell'Est, e con i 25 volontari che lavorano con noi. Per prima cosa si stabilisce il programma della giornata e ciò che bisogna procurare per la vita del centro, successivamente si decide, sulla base di quanto osservato, il livello di sicurezza nel centro che va da verde se tutto è tranquillo, ad arancione quando la gente appare annoiata, aggressiva, o si riunisce in gruppi tra i quali può salire la tensione, a rosso quando le tensioni esplodono o, purtroppo, ci sono dei tentativi di suicidio." 
"Per le prime settimane" continua il sacerdote "la nostra priorità sono stati i bambini per i quali abbiamo organizzato varie attività come giochi e proiezioni di film che li tengono occupati tutto il giorno. Qualche giorno fa abbiamo anche iniziato a farli studiare con volontari che insegnano mstematica, inglese, arabo e qualche altra materia. I bambini hanno vissuto esperienze durissime ma non direi che sono traumatizzati, raccomandiamo sempre agli adulti, parenti ed operatori, di non trasferire le angosce sui bambini che meritano una vita quanto più normale, se li perdiamo perdiamo il loro ma anche il nostro futuro."
"Ora che le giornate dei bambini sono organizzate ci stiamo prendendo cura delle giovani ragazze che non possono lasciare il centro e che, troppo grandi per giocare ma troppo piccole per sfuggire al controllo familiare cominciano a risentire dell'isolamento e potrebbero cercare di fuggire o mettersi nei guai."
"A breve termine le prime vittime delle azioni dell'IS possono essere proprio loro mentre a lungo termine ci preoccupa il futuro dei bambini."
"In sostanza posso dire che tutti i problemi materiali possono essere risolti o superati, d'altra parte gli iracheni non sono morti di fame neanche durante l'embargo, ma che quelli psicologici legati ai traumi subiti da chi è stato vittima di violenza o legati alla forzata convivenza in condizioni disagiate sono più difficili da risolvere." 
La situazione nel centro di Shlama Mall è diversa da quella di Mar Eliyya perchè diverse sono le persone che abitano il palazzo ancora in costruzione in alcune sue parti. Al pian terreno abitano famiglie provenienti dal villaggio di Qaraqosh, al primo provenienti da Qaraqosh e Karamles ed al secondo solo da Karamles.
"Sono tutte famiglie imparentate tra loro ed autosufficenti dal punto di vista organizzativo tanto che noi forniamo ciò che loro serve ed ad esempio ognuna cucina per sè e gestisce i propri membri. Certo bisogna controllare anche lì che la tensione non salga e non si formino gruppi ostili agli altri ma nel complesso direi che anche a Shlama Mall la situazione è sotto controllo." Certo non deve essere facile per i due sacerdoti ed i 25 volontari gestire una situazione che per quanto "sotto controllo" è potenzialmente esplosiva come sempre accade quando migliaia di persone sono costrette a convivere "in cattività" senza speranza di poter riavere una vita normale.
Quella che ci vuole è un'organizzazione quasi militare che Padre Bazi già in passato ha dimostrato di poter gestire, ma anche fantasiosa. Con qualche trucco, spiega il sacerdote, "nel centro di Mar Eliyya abbiamo risolto il problema dei rifiuti prodotti da così tante persone" dice ridendo "con un metodo magari poco ortodosso ma efficace: paghiamo i bambini che ce la portano. In questo modo tutto funziona e sono contenti. Il centro è pulito ed i bambini che ricevono uno snack, una bibita o un pacco di biscotti si sentono utili, e lo sono davvero."
Padre, che ne sarà di questa gente?

"Non so quando l'IS sarà sconfitto in Iraq e se e quando queste persone potranno lasciare i centri. Il 50% cercherà di fuggire all'estero e l'altro 50 cercherà di tornare alle proprie case, forse una metà di loro recupererà qualcosa se ancora c'è e si trasferirà in Kurdistan. Magari non ad Erbil che ha un costo della vita altissimo, forse nelle vicinanze. Tutto è da vedere. Penso che il governo e la chiesa potranno sostenere queste persone per il cibo e l'affitto ma rimane il problema del lavoro che in Kurdistan non c'è per tutti."
Molti, secondo la sua opinione, cercheranno di lasciare l'Iraq, ci riusciranno?

"Non lo so. Ho apprezzato la Francia quando si è dichiarata disponibile a concedere visti agli iracheni cristiani, bisognerà vedere se sarà davvero così e se altri paesi saranno disposti ad acccoglierli. 

Nell'ultima omelia ho detto chiaramente alla gente che il loro primo pensiero  devono essere i loro figli ed il loro futuro, e che nessuno ha il diritto di dire loro cosa fare o dove vivere. Spero che il mondo occidentale voglia dare a queste persone l'opportunità di ricostruirsi una vita altrove da qui se lo desiderano.
Che vantaggio c'è nell'essere uccisi in Iraq? Di cosa è meglio parlare, dei cristiani iracheni vivi, magari all'estero, o di quelli morti?
Abbiamo sofferto abbastanza, ora il nostro dovere è di non far soffrire le prossime generazioni.
I nostri antenati hanno fatto la storia della cristianità in questa parte del mondo e noi li ammiriamo per questo, noi ora però fuggiamo dal demonio. Tutti ci auguriamo che queste persone possano tornare alle loro case, al loro lavoro. Ma ci sono ancora quelle case? Ci sono ancora quei lavori per loro? Se consideriamo gli ultimi avvenimenti con la ragione e non con il cuore come possiamo pretendere che queste persone si fidino a tornarvi? Nessuno le ha difese dallo Stato Islamico. Possiamo rassicurali che un domani non sarà lo stesso? Perchè chiedo che l'Occidente apra i confini a chi non ce la fa più a vivere in questa situazione? Perchè penso che se ai cristiani non verrà data questa opportunità potranno essere uccisi, potranno sopravvivere ma pagando la tassa che la legge islamica impone ai non musulmani, qualcuno potrebbe alla fine convertirsi pur di salvarsi e qualcun'altro potrebbe addirittura provare a reagire con la forza innescando l'ennesima spirale di violenza. Sono alternative queste? Voi in Occidente le accettereste? Dico questo soffrendo perchè, da sacerdote, se perdo la mia gente cosa mi rimarrà? Io amo il mio paese e non l'ho mai abbandonato neanche nei periodi più bui, ma queste persone hanno figli ed anche per noi, come per voi, i bambini sono il futuro. Ed il futuro non deve essere negato a nessuno."