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22 luglio 2014

Mosul decristianizzata. l’islam tace. Il cuore spezzato

Luigi Geninazzi

È il cuore di una Chiesa antica che non aveva mai smesso di battere, nonostante i colpi violenti subiti negli ultimi anni. Due giorni fa quel cuore si è fermato, una tragedia tanto più grande quanto più segnata dall’orrore del presente e dall’angoscia per il futuro. A Mosul, culla della Chiesa caldea, la comunità cristiana è morta. Da quando la città del nord dell’Iraq è diventata la capitale del "Califfato" proclamato dall’Isis, il nuovo e aggressivo movimento jihadista, è aspro regolamento di conti con gli sciiti, marchiati con la «R» di rawafed (rinnegati), ma non c’è più posto per i cristiani, marchiati con la «N» di nazara (nazareni, come Gesù ) tracciata sulle loro case e costretti a una fuga precipitosa dopo essere stati insultati, picchiati e depredati.
Monasteri bruciati, croci divelte, statue mariane distrutte. In questo modo gli estremisti musulmani intendono sradicare una comunità presente in Iraq «fin dai tempi in cui la religione islamica era di là da venire». Me l’aveva fatto notare monsignor Emil Nona, appena nominato pastore di un piccolo e martoriato gregge, quando lo incontrai nella sede dell’arcivescovado caldeo di Mosul. Alle sue spalle stava il ritratto del predecessore, monsignor Paulos Rahho, assassinato dagli integralisti islamici nel 2008. Mi condusse sul terrazzo dove mi mostrò la grande croce bianca che spiccava in cima alla cupola dell’unica chiesa rimasta aperta ai fedeli, meno di un migliaio di famiglie che avevano deciso di restare malgrado tutto, con la vita quotidiana cadenzata da attentati alle chiese, sequestri di fedeli e uccisioni di sacerdoti. Eppure viviamo e restiamo qui, diceva con un mesto sorriso quel coraggioso vescovo.
Oggi non più. Ho ancora davanti agli occhi quella grande croce bianca sulla cupola che l’esercito dell’Isis pochi giorni fa ha ricoperto con un drappo nero, simbolo del califfato. Non era mai successo, neppure nei momenti più terribili vissuti dalla Chiesa irachena in seguito alla sciagurata guerra del 2003. Per la prima volta nella sua storia, Mosul non ha più abitanti cristiani, non ha più traccia di una cultura e di una fede che erano diventate patrimonio di civiltà. Dalla Siria all’Iraq l’odio anti-cristiano dilaga come un fiume in piena.
«È una nuova pulizia etnica, un nuovo genocidio», denuncia il patriarca caldeo di Baghdad, monsignor Louis Sako. Non a caso un intellettuale laico francese, Regis Débray, ha definito la persecuzione dei cristiani nel terzo millennio come "il nuovo anti-semitismo".
«Siamo tutti cristiani»; è la campagna lanciata da un abitante di Mosul e condivisa sul web da centinaia di iracheni. Un gesto ammirevole che però non sembra coinvolgere la maggioranza del mondo arabo e musulmano. E cos’hanno da dire in proposito i capi religiosi della "umma", l’autorità di Al-Azhar del Cairo e più in generale i leader dei Paesi islamici? Nulla finora, ad eccezione ovviamente del premier iracheno al-Maliki che si trova nell’occhio del ciclone.
Eppure, come ha scritto recentemente la rivista Oasis, «il califfato proclamato dallo Stato islamico con sede a Mosul non ha trovato molti sostenitori tra i pensatori musulmani». Intellettuali che ispirano la Fratellanza musulmana ed esponenti del movimento salafita hanno criticato l’idea del califfato. Senza però accennare minimamente a quel che sta succedendo sul campo, come se la persecuzione dei cristiani marchiati come gli ebrei ai tempi del nazismo non li riguardasse direttamente. Come se i fanatici dell’Isis venissero da un altro pianeta e non fossero sostenuti, armati e finanziati da Paesi potenti della penisola arabica cui sono legati dalla comune ideologia wahhabita, la stessa che ha partorito al-Qaeda. Con l’Isis il terrorismo islamico sta diventando un fenomeno di massa e rischia di essere più pericoloso delle cellule di al-Qaeda.
Ma gli intellettuali del mondo musulmano fanno finta di non vedere, mentre l’Occidente si guarda bene dal chiedere conto a un Paese come l’Arabia Saudita, alleato degli Stati Uniti, strategico per le forniture di petrolio. Ancora una volta è la croce il segno di contraddizione piantato nel cuore della storia
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