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1 luglio 2014

Iraq: sunniti e sciiti spaccati anche in parlamento. Combattimenti a Tikrit

By Radiovaticana
Marco Guerra/
Cristiano Tinazzi

In Iraq è stallo sul fronte politico. A Baghdad il parlamento ha chiuso la sua prima sessione dopo le elezioni senza eleggere un presidente dell’aula. Sul terreno intanto proseguono i combattimenti a Tikrit, dove la controffensiva dell’esercito governativo non riesce a spezzare la resistenza degli jihadisti che hanno conquistato la città nei giorni scorsi. 
Nonostante gli appelli all’unità, oggi nella prima seduta del parlamento iracheno, dopo le elezioni dello scorso aprile, si sono riproposte le divisioni tra i blocchi sciita, sunnita e curdo. I parlamentari erano chiamati ad eleggere il presidente del’Aula, ma mancando un accordo sul nome e il quorum per la votazione, la sessione è stata chiusa. L’assemblea tornerà a riunirsi martedì prossimo e sarà chiamata nelle prossime settimane ad eleggere anche Presidente e premier, malgrado le resistenze di al Maliki che vuole mantenere il ruolo di primo ministro. Spaccature che portano il presidente della regione autonoma Kurda Barzani ad annunciare un referendum per l’indipendenza “nel giro di qualche mese”. Intanto gli jihadisti dello 'Stato islamico dell'Iraq e del Levante' mantegono il controllo dei territori conquistati nelle scorse settimane. A Tikrit proseguono i violenti combattimenti tra le truppe regolari e i ribelli mentre l'aviazione irachena ha effettuato nuovi raid su Mosul. Sulla situazione umanitaria nel nord dell'Iraq Cristiano Tinazzi ha sentito il vescovo di Erbil mons. Bashar  Warda:
"Ciò che chiediamo alla comunità internazionale è di mettere pressione sui politici iracheni. Fondamentalmente, infatti, non esiste un governo al momento. Chiediamo di accelerare il processo di riunificazione della comunità, per formare un governo il prima possibile, perché come lei ha detto, la situazione è caotica, davvero caotica, e questo sta causando molti problemi e depressione. Le persone non sono solo preoccupate e impaurite, ma sono davvero depresse per quello che sarà il loro futuro, se ci sarà un futuro per il Paese. E noi, in qualità di leader della Chiesa, abbiamo detto: “Per favore, se volete dividere il Paese, fatelo in pace, senza la violenza cui stiamo assistendo”..
C’è la possibilità, come lei ha detto, che il Paese venga diviso?
Se tutto va bene no, perché anche le divisioni non sono il vero problema e certo non lo risolvono, anzi ne causano di più. Qualcuno, però, trova tutto questo l’unica soluzione. Non è l’unica, però. E’ dovuta ad alcune questioni complicate, storie non chiuse del passato, e per questo le persone pensano alla divisione. Ma nel profondo tutti vorrebbero vedere l’Iraq com’era: Iraq.
Negli ultimi giorni molte persone, migliaia di persone, sono scappate da Qaraqosh ed altri paesi cristiani a causa della guerra. Com’è, dunque, la situazione al momento?
E’ stato davvero difficile ricevere più di 20 mila persone in tre giorni. In Ankawa è stata davvero dura per noi. Siamo stati in grado, in un certo modo, di far fronte alla situazione, perché si sa che le risorse della Chiesa sono limitate, e l’esperienza che abbiamo non è l’esperienza con cui poter far fronte al grande numero di persone. Fortunatamente il 90% delle famiglie in centro se ne sono andate, poche sono quelle rimaste in casa con i loro amici e parenti, e alcune persone di Ankawa le hanno accolte. La parte triste della storia è che le persone si stanno preparando a lasciare il Paese – da Qaraqosh, da Ankawa - molte delle nostre comunità cristiane stanno pensando seriamente di lasciare il Paese. Sono stufi, esattamente stufi, impauriti, terrorizzati.
Vogliono semplicemente andarsene e scegliere un altro Paese forse per cominciare una nuova vita?
Sanno che potrebbe non essere una saggia decisione, una buona decisione; sanno che è una decisione dura, sanno che non è facile emigrare, sanno che i Paesi europei, l’America, il Canada e l’Australia forse non saranno disposti ad accettarli. Ma dicono che è comunque meglio che restare, aspettando invano, e forse aspettando un’umiliazione maggiore, in un certo modo. Non è certo una decisione facile, ma non ci sono alternative.
E per quanto riguarda i cristiani di Mosul? Se ne sono andati? Sono scappati?
Sì, alcune famiglie si contano. Da quello che sentiamo, se ne stanno andando, perché l’Isis ha cominciato ad promulgare le sue leggi, la Costituzione, l’attuazione della sharia. Quindi, adesso è tutto sempre più chiaro ...
Ma lei non ha sentito nessun tipo di attacco contro le persone, uccisioni...
Due chiese sono state razziate. Hanno anche stabilito che le donne non devono guidare la macchina. Hanno portato via tutte le statue e anche l’antica statua di Nostra Signora di Al Tahira … Almeno adesso sappiamo cosa ci aspetta!
La comunità cristiana è una delle minoranze qui in Iraq. Se tutte queste persone lasceranno il Paese, cosa succederà?
Bisogna che la comunità internazionale interferisca, perché le minoranze sono una risorsa per la ricchezza del Paese. Non si possono abbandonare al loro destino. Se i loro diritti saranno tutelati, per farli rimanere nel Paese, questo rappresenterà una vera ricchezza per l'Iraq. Quindi, non si tratta di essere “cristiano”, si tratta di essere un essere umano, di essere una minoranza. Noi abbiamo tante minoranze all’interno dell’Iraq, e per questa ragione noi diciamo: “Per favore, fate qualcosa!... Fate qualcosa!”
Se dovesse mandare un messaggio al resto del mondo, cosa direbbe?
Il primo messaggio è che abbiamo bisogno di formare un governo, che si prenda cura di tutti gli iracheni, dal Nord al Sud: sunniti, sciiti, curdi, cristiani, shabak ... Tutti sono iracheni ed hanno bisogno di un governo che si prenda cura di loro. Altrimenti, non ci sarà futuro per i cristiani e probabilmente neanche per il Paese.