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14 giugno 2014

Il nord dell'Irak trappola per cristiani. Rischio massacro

Gian Micalessin

Tutto quel che resta loro è la speranza nella clemenza dei vincitori. Loro, i miliziani qaidisti dell'«Esercito Islamico dell'Iraq e della Siria» sono tutt'attorno. Sono già entrati nel monastero di Mar Behnam. Hanno già messo a ferro e fuoco le chiese di Mosul. E la loro avanzata verso Bagdad non incontra per ora alcuna difesa. Ieri l'esercito ha abbandonato anche le città di Saadiyah e Jalawla. L'unico tentativo di reazione si registra a Tikrit dove alcuni elicotteri hanno bombardato le zone controllate dall'Isis. Per i miliziani qaidisti prendersi anche Qaraqosh è, dunque, poco più di una passeggiata. Possono entrare quando vogliono. E nessuno può impedirglielo. I cristiani asserragliati là dentro sono foglie d'autunno, formiche per cui nessuno è disposto a muovere un dito. Del resto chi può andare in loro soccorso? L'esercito di Bagdad si è sciolto come neve al sole. E dell'intervento americano promesso dal presidente Barack Obama non c'è per ora alcuna traccia, fatto salvo l'annunciato spostamento di una portaerei verso il Golfo: anzi l'unica certezza è che Obama ha ribadito chiaramente che le truppe Usa non torneranno in Iraq. Certo non lontano da Qaraqosh ci sono le milizie curde che controllano Kirkuk, Erbil e il resto del nord. Ma non hanno né tempo, né voglia di occuparsi dei cristiani. Anzi i loro posti di blocco fermano sistematicamente gli sfollati in fuga verso nord per evitare un'affluenza fuori controllo nelle proprie zone.
Del resto, come dargli torto. In queste ore la principale preoccupazione dei peshmerga sono i pozzi di petrolio di Kirkuk, vera ricchezza di un Kurdistan trasformato, di fatto, in uno Stato indipendente nel mezzo di un Iraq in fiamme. Certo oltre ai peshmerga ci sarebbero i due battaglioni di Pasdaran e le «forze speciali» iraniane mandate ad organizzare le milizie sciite irachene del sud. Ma hanno altre priorità. La prima è la difesa dei luoghi sacri e delle città come spiega la fatwa del Grande Ayatollah Ali al-Sistani  massima autorità sciita del Paese, letta ieri durante la preghiera del venerdì. Dunque alle quarantamila anime perdute di Qaraqosh non resta che sperare nella clemenza dei vincitori. «Gli abitanti sono terrorizzati nessuno osa mettere il naso fuori di casa», racconta il vicario domenicano padre Ameer Jaje che da Bagdad mantiene i contatti telefonici con la cittadina circondata. Da dentro la piccola «Costantinopoli» assediata il vescovo caldeo Amel Nona si sforza, anche per non innescare rappresaglie, di essere più positivo. «La nostra chiesa di Mosul dedicata allo Spirito Santo è stata saccheggiata da bande di ladri, ma le famiglie musulmane dei dintorni hanno chiamato proprio i miliziani islamisti, che hanno posto fine al saccheggio. Ora le famiglie musulmane presidiano la chiesa e s'impegnano a non far tornare gli sciacalli».
Frasi rassicuranti, ma insufficienti a cancellare le tetre memorie del passato. Proprio la Chiesa dello Spirito Santo di Mosul fu teatro, il 3 giugno del 2007, dell'assassinio di padre Ragheed Ganni e di tre diaconi uccisi dal fanatismo islamista. E sempre lì venne rapito dai terroristi integralisti l'Arcivescovo Paulos Faraj Rahho, ritrovato cadavere il 13 marzo 2008. Ma se le memorie del passato sono crudeli il presente rischia di esserlo ancor di più. Un tempo chi si sentiva minacciato poteva sempre cercar rifugio nella vicina Siria. Oggi anche quella via di fuga è preclusa. I valichi di frontiera e le province del nord siriano, quelle dove un tempo trovavano rifugio gli sfollati cristiani, sono oggi sotto il controllo dei miliziani dell'Isis impegnati a combattere Bashar Assad. E così mentre l'Occidente resta a guardare, i cristiani iracheni fanno i conti con le insidie di una terra natale trasformatasi in pochi anni in una terrificante trappola per topi.