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30 aprile 2014

Arcivescovo di Baghdad: "Alle urne per dire no alla violenza"

By MISNA

“Il voto, nonostante tutto, si sta svolgendo nella calma a parte qualche episodio sporadico di violenza. Nonostante un clima di disincanto generale in molti si stanno recando ai seggi”: lo dice alla MISNA monsignor Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini, nel giorno in cui gli iracheni partecipano alle prime elezioni legislative dal ritiro delle truppe americane dal paese, nel 2011.
Monsignore com’è l’atmosfera nella capitale?
In circolazione ci sono poche macchine. I posti di blocco sono dappertutto, il dispositivo messo in pieadi per prevenire attentati è massiccio e capillare. La gente preferisce andare a piedi, dunque, qui come nelle altre grandi città. I manifesti della capagna elettorale campeggiano ancora su tutti i muri e le file, davanti alle scuole e ai comitati di quartiere, dove sono allestiti i seggi, piuttosto lunghe.
Ma cosa si aspettano gli iracheni da questo voto?
Direi che ormai gli iracheni non si aspettano niente. Il clima è di generale disincanto per una classe politica che si è dimostrata incapace di superare divisioni e interessi di parte, per rilanciare un paese alle prese con grandi questioni irrisolte e un’economia che non è mai ripartita. La democrazia – se così la vogliamo chiamare – ha lasciato il passo a un corollario di imperfezioni e mancanze, e la gente ha imparato a non entusiasmarsi più per le promesse non mantenute e le parole vuote dei politici.
Un quadro senza speranza?
La speranza c’è sempre. Prova ne sono le lunghe code ai seggi e gli indici macchiati di inchiostro mostrati con orgoglio dai votanti. Ma purtroppo questo appuntamento giunge in un momento in cui il paese è di nuovo preda della spirale di violenza. Cose che speravamo di esserci lasciati alle spalle e che invece si riaffacciano nella vita di tutti i giorni e oscurano la percezione del futuro.
In alcune province, come quella di Al Anbar in preda ai combattimenti, il voto è stato rinviato…
La presenza di gruppi estremisti e terroristi è di certo una spina nel fianco dell’Iraq. Ma quello che più mi preoccupa è la crescita del confessionalismo, che alimenta le divisioni settarie. Secondo una regola non scritta, ma ampiamente accettata, in Iraq il primo ministro è sciita, i curdi controllano la presidenza della Repubblica e i sunniti il parlamento. Come già altrove in Medio Oriente (il Libano ne è forse l’esempio più manifesto) il confessionalismo ha ‘inghiottito’ la politica, e la presenza di sponsor esterni, più o meno occulti, ipoteca alleanza e successi ben più del voto popolare.
Quali sono, a suo avviso, le sfide più urgenti che il nuovo governo si troverà ad affrontare?
La sicurezza, come è evidente: le istituzioni in Iraq sono paralizzate dalla violenza che è tornata ai livelli del 2007, con attentati e attacchi quotidiani. Dal 2010 il parlamento ha approvato solo tre progetti di legge. Ma anche la ripartizione della ricchezza, un nodo centrale nel rapporto con regioni autonome come il Kurdistan e che non è regolamentato da alcuna legge. Infine, non bisogna sottovalutare l’urgenza di una riconciliazione mai veramente compiuta. Negli ultimi tre anni le divisioni si sono tramutate in lotte tra sostenitori e oppositori del governo, mentre manca uno spirito di identità nazionale che non ci faccia sentire curdi, sunniti , cristiani o sciiti, ma prima di tutto iracheni.