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5 febbraio 2014

Nell'Iraq in guerra

di Giuseppe Dossetti

“È difficile vivere in un paese in guerra”, mi dice il patriarca caldeo mons. Louis Sako all'indomani dell'ordinazione episcopale di don Saad Sirop e di altri due vescovi, uno per Kirkuk nel nord e uno per Bassora nel sud.
Il padre Aysar, della chiesa siro-cattolica, è più drastico. Alla mia domanda, se vede qualche prospettiva per la Chiesa in Iraq, risponde: “Nessuna”.
Baghdad è una grande città: qualcuno dice di cinque milioni, qualcun altro di sette milioni di abitanti. Unisce antico e nuovo: palazzi moderni e vecchie case, attorno a monumenti di straordinaria bellezza, come l'antica università Al Mustansiriya, fondata nei primi decenni del 1200, dove vennero tradotti in arabo i classici della filosofia greca, poi trasmessi all'occidente. Le grandi aule, magnificamente costruite a volta, ospitavano la più rinomata scuola di medicina, una ricca biblioteca e facoltà di letteratura e matematica. Ora sono vuote e polverose, abbandonate dopo essere state depredate.
Baghdad era la seconda città dell'impero ottomano, centro culturale e commerciale, porta dell'oriente. Lo stesso Saddam Hussein l'aveva abbellita, con un piano regolatore moderno, lunghi viali e magnifici lungofiume: infatti il Tigri attraversa la città, largo più di cento metri.
Ora, però, in gran parte è una città in abbandono, perché la guerra del 2003 e le contese tra i vari partiti hanno distrutto la struttura dello stato. Molte persone del ceto medio e i rappresentanti della cultura sono emigrati: non si vede una fine dello scontro tra sunniti (in minoranza) e sciiti (maggioritari). Ci si prepara alle elezioni di aprile e gli attentati, quotidiani, fanno parte di una macabra e per noi incomprensibile campagna elettorale.
La situazione è aggravata dalla permeabilità della frontiera con l'Iran: mi dicevano, i miei ospiti, che il fanatismo non è caratteristico dei cittadini di Baghdad, abituati da sempre a una cultura cosmopolita. Ma ormai centinaia di migliaia di persone sono affluite dall'Iran, in buona parte iracheni che, in occasione della guerra Iran-Iraq, erano fuggiti in Iran, perchè sciiti, e ora ritornano indottrinati e faziosi.
Ma anche i sunniti, che sotto Saddam - pur essendo in minoranza - avevano occupato i posti di governo, non sopportano di essere messi da parte dal governo centrale e odiano gli sciiti. Sembra di essere nell'Europa della fine del Cinquecento e del Seicento, all'epoca delle guerre di religione tra cattolici e protestanti, dove fanatismo religioso e interessi politici si mescolavano, con gli effetti che conosciamo.

In questo momento, però, non ci sono attentati contro le minoranze religiose, in particolare i cristiani. Mi dicono, i miei ospiti, che i fanatici della guerra santa si sono trasferiti in Siria. La Siria, che ospitava una volta i profughi dall'Iraq (più di un milione), è percorsa ora da questa internazionale del terrore e molti siriani sono emigrati in Iraq: abbiamo visto le loro donne vendere fazzoletti di carta ai semafori.
Tuttavia le ferite del fanatismo omicida si vedono ancora. Ho visitato la chiesa siro-cattolica di Sayadet al-Najat (Nostra Signora del Soccorso, vedi su Google): il 31 ottobre del 2010 quattro terroristi, giovanissimi, dopo aver eliminato le guardie all'esterno entrarono e uccisero 47 persone che partecipavano alla liturgia serale, e prima di tutto i due preti, p. Wasim e p. Thaer.
L'orrore durò dalle 18.30 alle 22.30, quando le forze speciali finalmente intervennero e i terroristi si fecero saltare in aria. Settanta persone si erano rifugiate nella sacrestia, un locale di quattro metri per cinque, sbarrando la porta con i mobili: ciononostante alcuni morirono, perché i terroristi lanciarono bombe e spararono attraverso le fessure.
Eppure la Chiesa vive, pur segnata dalla morte. Ho fatto il giro dell'antico centro della città e ho visitato la vecchia cattedrale, inaugurata nell'anno 1900 e dedicata a Maria Addolorata. Lì è sepolto anche mons. Paul Cheiko, patriarca dei caldei, che ricordo protagonista al Concilio Vaticano II.

Con me c'era il p. Yoshia (Osea), che per trent'anni è stato parroco per gli emigrati negli Usa: ora, dice con semplicità, è tempo di ritornare in Iraq. La vecchia cattedrale era la sua parrocchia, circondata da un quartiere abitato da cristiani e non solo: i suoi amici erano musulmani, sunniti o sciiti, ma nessuno ci faceva caso.
 
A Baghdad abitavano 500mila cristiani, ora sono forse 100mila. La sua chiesa è vuota, lì non abita più nessuno. Alcuni soldati la presidiano e, mentre la visitiamo, entra un uomo a pregare davanti all'immagine della madre del profeta Gesù: ma è un musulmano. Segno di povertà o di grazia, o di tutte e due?
L'emigrazione dei cristiani continua, anzitutto verso l'estero. La diocesi caldea più numerosa dopo Baghdad è quella di Minneapolis, negli Usa. Lo stesso mons. Saad ha una sorella in Gran Bretagna, una in Svezia e un fratello in Germania. Il richiamo a unire le famiglie è forte e ancora di più lo è la prospettiva di dare ai figli occasioni di studio, lavoro e sicurezza.

Ma poi c'è la migrazione interna. Molti vanno nelle province del nord, abitate dai curdi, che sono una popolazione musulmana ma non araba. Essi accolgono volentieri i cristiani e ormai sono una realtà statuale indipendente, se non ufficialmente, almeno di fatto. Col mio visto iracheno non sarei potuto andarvi, avrei avuto bisogno di un altro permesso.

Anche il seminario e la facoltà teologica si sono trasferiti al nord. Lì risiede anche il p. Samir, che venne ad aiutarci per qualche anno a San Pellegrino e che ricordiamo quando commemorò, durante la marcia della pace del 2008, il vescovo di Mosul, mons. Raho, rapito e ucciso.

Tuttavia la Chiesa vive, anche in queste condizioni drammatiche. L'ordinazione dei tre vescovi ne è stata una prova: una grande gioia, una straordinaria comunione tra il popolo e i suoi pastori. Il rito si è svolto nella chiesa di San Giuseppe: dopo aver superato l'autoblindo e i soldati di guardia ero come a casa, in un'atmosfera di gioia coinvolgente.
Alcuni particolari mi hanno colpito: il libro dei Vangeli non è stato posto sulla testa, ma sulla schiena dei candidati, prostrati a terra: quasi ad indicare il compito e il peso di portare la Parola di Dio; nel momento centrale dell'ordinazione i vescovi presenti non si sono succeduti l'un l'altro a imporre le mani, ma hanno circondato i tre, li hanno nascosti, come se fossero fusi assieme a loro, assorbiti nel collegio episcopale.
Il giorno successivo mons. Saad ha presieduto la liturgia di insediamento, presente il patriarca; il clima era meno ufficiale, il patriarca ha scherzato ripetutamente con la gente, presentando la storia di mons. Saad. Poi, dopo la Messa, ci siamo trasferiti in un grande locale, dov'era apparecchiata la cena.
Lì i giovani della parrocchia si sono lasciati andare: hanno circondato il loro vescovo, fino a pochi giorni prima loro parroco, poco più vecchio di loro (mons. Saad ha 41 anni), lo hanno abbracciato, poi lo hanno lanciato in alto, poi hanno cominciato una danza, quella del serpentone, che ad ogni giro imbarca qualcuno degli astanti: Saad la guidava, e a un certo punto anche il patriarca è stato preso dentro, poi altri vescovi, poi anche me; tutto con una naturalezza e una familiarità commoventi.
Fuori ci aspettava il nostro autista, per riportarci all'albergo. Ci ha raccomandato di non allacciare le cinture di sicurezza, altrimenti eventuali malintenzionati avrebbero capito che eravamo stranieri. In effetti fermarsi al rosso è una scelta compiuta solo da qualche originale e il traffico, intensissimo nei grandi viali, richiede un'abilità che non mi riconosco.
Tuttavia non si può non lasciarsi coinvolgere dalla folla: siamo andati a un mercato ed eravamo dentro a un popolo, moderno e insieme antichissimo. Nei negozi c'era di tutto, ma le bancarelle mescolavano gioielli di poco prezzo a banchetti di venditori di panini e polpette; in un negozietto potevi trovare autentici pezzi di antiquariato ottomano assieme a un busto di Papa Wojtyla.
Accanto ai Suv, che neanche qui vediamo, c'era il carretto col cavallino e il ragazzo che trascinava un bilico, inverosimilmente carico. Girato l'angolo, siamo entrati nella “via dei librai”: libri nei negozi, libri sulle bancarelle, libri per terra. Mi dicevano i miei accompagnatori: il popolo iracheno è un popolo di lettori. Si diceva: “I libri si compongono in Egitto, si stampano a Istanbul e si leggono a Baghdad”.
Da questi libri si ricava il livello culturale di questo popolo: ho trovato un catalogo del Museo Nazionale, che non abbiamo potuto visitare perché in restauro. Il libro è assolutamente di buon livello, scritto da un autore locale con criteri moderni.
Lì vicino c'è un caffè, un posto affascinante: pieno di uomini (i sessi sono rigorosamente separati) che educatamente sorbivano il thè, conversando o leggendo, seduti su panche e davanti a tavolini che ricordavano i tempi dell'impero ottomano e di Lawrence d'Arabia. Infatti alle pareti c'erano fotografie di personaggi che certamente erano suoi contemporanei. Il tutto dava un'impressione di signorilità un po' severa. Peccato che, vicino alla porta, ci fossero le foto di cinque fratelli, morti quando un kamikaze si è fatto esplodere all'entrata.

Ora, però, questo paese è sfiancato dall'emigrazione del ceto medio e intellettuale e dai conflitti etnico-religiosi. Lo Stato non c'è, restano invece le tribù, l'antichissima forma di mutualità, che anzi ora è divenuta anche più importante. Poi c'è il popolo, con la sua vitalità, come quella di una pianta che può essere tagliata, ma che continuamente ricresce. Poi c'è lo Spirito Santo, c'è il sangue dei martiri.

§Se, umanamente parlando, la prospettiva è solo quella di resistere, tutto è possibile a Dio. Certo, è una Chiesa piena di coraggio, come testimonia il nunzio, mons. Giorgio Lingua, anche lui presente alla consacrazione e alle feste. Mi ha raccontato dell'affetto che gli mostrano le comunità, quando le va a visitare, poiché è il rappresentante del Papa.

Quello che commuove, e forse è anche motivo di vergogna, è che loro si sentono così profondamente legati alla Chiesa universale e non finiscono di ringraziare perché un prete italiano è andato a trovarli; da parte nostra forse non sappiamo neanche che esistono, che hanno una storia millenaria di fedeltà al vangelo.
Certo, noi occidentali non abbiamo ancora imparato che non tutti gli arabi sono musulmani e che, quando c'è una guerra in Medio Oriente, chi ci va di mezzo sono i cristiani. Lo è stato in Israele-Palestina e in Iraq, e ora accade in Siria. Purtroppo noi dipendiamo da una disinformazione che si può correggere solo andando e visitando i luoghi, ma soprattutto le comunità locali. Basta andare in Terrasanta, a patto che almeno una Messa la si celebri con chi ci ospita.