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15 ottobre 2013

Guerra scaccia guerra

By Rivista Maria Ausiliatrice - Basilica di Torino - Valdocco

Un po’ più di dieci anni fa nomi come Bassora, Ramadi o Baghdad erano noti al mondo intero che, incollato agli schermi, passava le notti a guardare le immagini di quelle città illuminate a giorno dalle bombe che per magia avrebbero dovuto portare la democrazia in Iraq.
Ora, forse, quel mondo a stento sa citare Baghdad come capitale di quel paese.
Niente di strano, succede sempre così. Ad una guerra ne succede un’altra, e un’altra ancora. E ci si convince, ci si vuole convincere, che se la Tv non ne parla è perché quella guerra è finita, quel paese è in pace.
Baghdad come Ginevra. Non è così.

In Iraq la guerra non è mai finita e forse non finirà mai, perché non si intravede soluzione pacifica al conflitto tra gli sciiti che ai tempi di Saddam Hussein soffrirono pene indicibili e che ora, forti della maggioranza numerica, governano il paese, i sunniti che reclamano il potere perso con la caduta del regime, ed i curdi che vorrebbero l’autonomia ma che vivono su territori troppo ricchi di petrolio perché il governo centrale gliela conceda.
Sono queste le tre tessere giganti del puzzle iracheno che non hanno lati in comune che le facciano combaciare. Ed accanto ce ne sono altre, più piccole, ma anch’esse parte dell’immagine generale.
Sono le minoranze religiose non musulmane che rischiano di scomparire giorno dopo giorno, silenziosamente: sono Yazidi, Mandei e Cristiani.

CRISTIANI ANTICHI, NON DI IMPORTAZIONE
Il cristianesimo in Iraq non è arrivato al seguito delle truppe di questa o quell’armata che nei secoli lo hanno invaso perché fu proprio nell’antica Mesopotamia che san Tommaso Apostolo con i suoi discepoli Addai e Mari predicò la Parola di Cristo convertendo le genti.
Da allora i cristiani, se non per brevi periodi e malgrado abbiano contribuito allo sviluppo dell’Iraq soprattutto dal punto di vista culturale, hanno vissuto, pregato e sofferto in quel territorio difendendo la loro fede e chiamandosi martiri.
Mai come ora però la loro sopravvivenza nella terra ancestrale è stata a rischio. Malgrado manchino stime ufficiali si dice che del milione e mezzo di cristiani che vivevano in Iraq nel 2003 ne siano rimasti solo 300.000: il 20%.
Sono cattolici, ortodossi, anglicani o appartenenti a chiese autocefale locali che il mondo, al pari delle bombe anti-Saddam, ha dimenticato.
Cosa ricordiamo degli anni in cui in Iraq i cristiani, compresi sacerdoti e vescovi, venivano sequestrati ed uccisi? E delle famiglie costrette alla fuga verso l’estero o verso il Kurdistan autonomo dalle minacce di morte quotidiane? E della strage all’ora della
Messa nella cattedrale di Baghdad che ha causato nell’ottobre del 2010 decine di morti? Quasi nulla.
Le violenze che i cristiani hanno subito negli ultimi 10 anni non sono obbiettivamente peggiori di quelle subite dai musulmani, ma sono diverse. Se i musulmani lottano per il potere non è così per i cristiani cui non sarebbe mai concesso di detenerlo in terra islamica.
Perché, allora? Perché in uno stato senza controllo i cristiani sono l’anello debole della
catena: pochi, disarmati, privi di struttura tribale di protezione, percepiti come alleati naturali dei nemici occidentali cristiani e nei casi peggiori come infedeli da scacciare.
In questo clima in cui si sentono sempre più “stranieri in patria” gli iracheni cristiani hanno scelto la fuga, anelata, con poche eccezioni, anche da coloro che vivono nella relativa sicurezza nel nord curdo.

I CRISTIANI FUGGONO, LA CHIESA LI VUOLE FERMARE
Il Patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako, ha più volte dichiarato come in Iraq siano rimasti solo i cristiani poveri che non hanno avuto la possibilità di fuggire, ammettendo in questo modo una scomoda verità per la Chiesa: i fedeli, per quanto profondamente religiosi ed attaccati alle proprie radici non vedono più nell’Iraq un paese in cui far vivere i propri figli perché sanno che non solo subiranno discriminazioni ma saranno sempre a rischio.
Un contesto, questo, che oppone quindi i laici che vorrebbero fuggire in nome della sicurezza, e la Chiesa che vorrebbe trattenerli in nome della tradizione; chi pensa che il futuro val bene una diaspora, e chi ricorda loro la tradizione del martirio della chiesa mesopotamica.
C’è una soluzione? Se il tempo o una diversa situazione politica faranno dell’Iraq quel paese normale che noi pensiamo già sia, sì.
Gli iracheni cristiani che adesso qui risiedono vi rimarranno, qualcun altro vi tornerà, e le radici della nostra fede saranno salve laddove fiorirono molto, molto tempo fa.
Per adesso ciò che noi possiamo fare è non dimenticarli. Non consegnare all’oblio le loro sofferenze.
Sono vittime innocenti che noi, da cristiani, chiamiamo fratelli. Ed i fratelli, anche se lontani, si ricordano.
 
Luigia Storti
redazione.rivista@ausiliatrice.net