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27 aprile 2012

Il futuro è nell'unità Intervista con mons. Shlemon Warduni (Baghdad)


By SIR

“Abbiamo bisogno di una forte spinta così da avere un governo stabile, capace di far rispettare la legge e dare quindi stabilità e sicurezza alla popolazione. Invece assistiamo a litigi tra fazioni e parti politiche che non favoriscono, anzi danneggiano, la riconciliazione nazionale che si frammenta tra interessi particolari, anche di natura religiosa. Ciò che è necessario è mettere da parte i personalismi a vantaggio di tutti i cittadini e del bene comune. Diversamente sarà sempre più difficile continuare a vivere in Iraq e impossibile per il Paese crescere e ricostruirsi”.
Non usa mezzi termini il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni, per descrivere la situazione in cui versa il suo Paese, oscurato – per così dire sui media – dalle vicende di altri Paesi della regione mediorientale, Siria ed Egitto in testa, impegnati a dare un corso alla “primavera araba”. Di passaggio in Italia, dopo un lungo tour in diversi Paesi europei per incontrare i responsabili delle varie Caritas nazionali, mons. Warduni che è anche presidente di Caritas Iraq, accetta di fare il punto sul suo Paese con Daniele Rocchi per il Sir.
Da dove deve venire questa spinta?

“La spinta deve venire dall’interno del Paese. Dall’esterno giungono, infatti, forti pressioni per analoghi interessi di parte, legati in modo precipuo, alle risorse naturali dell’Iraq, petrolio in primis. Mai come adesso ai nostri governanti sono richieste saggezza, capacità di discernimento per operare scelte coraggiose, lealtà, spirito di sacrificio. I personalismi distruggono il Paese”.

Quanto sta accadendo nei Paesi a voi vicini non aiuta la stabilità politica irachena...

“L’esperienza c’insegna che, quando abbiamo dei vicini di casa con problemi, questi si riflettono anche su di noi e influenzano la nostra vita. Intorno all’Iraq ci sono tante nazioni, Siria, Iran, Arabia Saudita, Kuwait, Turchia, le cui vicende interne hanno conseguenze negative sulla vita del nostro Paese”.

Un Iraq federato potrebbe essere una soluzione?

“La mia idea è che l’Iraq debba restare unito. I politici devono imparare a lavorare insieme. Il futuro del Paese è nell’unità, non nella divisione. L’Iraq è ricco di risorse naturali, culturali e storiche grazie alle quali tutto il popolo, dotato di grande generosità, potrebbe prosperare e con lui anche le nazioni vicine. Purtroppo, anche a causa delle guerre e dell’embargo, è diventato un Paese povero. Tuttavia, sono certo che se ci fossero politici capaci la nostra economia si risolleverebbe in due anni”.

Ci vorrebbe una “primavera araba” anche per l’Iraq...

“Ma che si tratti di una reale primavera e non di un inverno arabo. Tutte le nazioni arabe sono contagiate da questo movimento. Ora mi chiedo, la primavera, come fa intendere la parola stessa, non deve essere qualcosa di aperto, quindi disponibile al dialogo, favorevole alla rinascita, alla libertà e al diritto di tutti? Da quel che vediamo il fanatismo se ne sta impossessando a scapito del bene comune. La ‘primavera araba’ deve essere il tempo del dialogo, non della chiusura, del fondamentalismo e della divisione etnica, religiosa e politica. Non dimentichiamo che l’Iraq era in fermento già prima della ‘primavera araba’. Almeno questo si poteva credere con la fine del regime”.

In quell’occasione si era creduto che la strada verso la democrazia e la libertà fosse stata segnata, e invece?

“Quale libertà, quale democrazia è arrivata con l’occupazione americana, quella di uccidere, quella della povertà più assoluta, quella delle infrastrutture ancora da ricostruire? Quale? Ancora oggi a distanza di più di dieci anni, non abbiamo erogazione regolare di acqua, elettricità; a Baghdad, per fare un esempio, solo il 5% delle abitazioni possiede un telefono fisso. Senza dimenticare che, anche se in misura minore, continuano gli attentati con autobombe, gli omicidi, i rapimenti e gli abusi che vedono soprattutto i cristiani nel mirino. Davanti a tutto questo non vedo altra via di uscita se non la riconciliazione nazionale, il rispetto dei diritti di tutti i cittadini senza distinzione alcuna e la lotta al fondamentalismo”.

Fondamentalismo che sembra prendere di mira soprattutto i cristiani al punto che oggi la popolazione cristiana irachena si è più che dimezzata...

“Sull’emigrazione ha pesato anche la mancanza di pace e di stabilità. Certamente non si può negare che i cristiani siano vittime, più dei musulmani, di violenze. I cristiani non sono soliti reagire, i musulmani possono godere della protezione delle loro tribù. Quindi le case dei cristiani, le chiese, i negozi e i fedeli stessi sono oggetto di minacce, abusi e violenze da parte di semplici criminali come di fondamentalisti islamici legati anche ad al-Qaeda. Non sono rari i casi di pagamento di somme per essere lasciati tranquilli. E la polizia non fa nulla, la legge non viene fatta rispettare”.

Quanto pesa questa situazione sulla vita della comunità cristiana?

“Pesa molto. Cerchiamo per questo di sviluppare delle iniziative che ci facciano sentire parte della Chiesa universale e allontanare la tentazione di sentirci soli. Stiamo pensando, in questi giorni, di partecipare con una rappresentanza, all’incontro mondiale delle famiglie a Milano. Ogni vescovo dovrà scegliere una famiglia da inviare, facendosi garante per questa, il rischio, infatti, è che una volta usciti dall’Iraq i componenti del nucleo familiare non tornino più nel Paese. Come vescovi saremo a Beirut, con Benedetto XVI, per la consegna dell’Esortazione del Sinodo per il Medio Oriente. Ci stiamo preparando, poi, all’Anno della fede, con delle catechesi tenutesi già durante la Quaresima. La preghiera è la nostra consolazione”.