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1 giugno 2011

Cristiani d'Iraq, tra dialogo e paure

Di Città Nuova
di Roberto Comparetti

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Monsignor Jean Benjamin Sleiman è Arcivescovo di Baghdad. Nel suo peregrinare per l’Europa ha di recente fatto tappa in Sardegna, dove ha parlato della condizione del suo popolo, stretto tra le provocazioni fondamentaliste islamiche e l’occupazione delle truppe straniere. Nel mezzo c’è la vita di tanti cristiani che oggi, più di quanto accadeva con Saddam Hussein, è messa in pericolo proprio dal fondamentalismo. I cristiani d’Iraq, dice, sono angosciati: temono per la loro vita, e lasciano così il Paese.
Cosa accadeva prima della caduta del regime di Saddam?
Alla base di quel regime c’era la sicurezza nazionale, con libertà ridotte, ma rispetto per i cristiani. Non erano temuti, non rappresentavano un pericolo per Saddam, il quale riconosceva loro un ruolo di mediazione e di volontà di vivere in pace, che è venuto meno con la caduta del regime. Questo non significa che Saddam non facesse il suo interesse politico, ma apprezzava la vita dei cristiani: a volte andava a trovare le nostre famiglie e ne aveva una buona impressione, per la pulizia delle case e per il modo di porsi. Oggi invece intere famiglie continuano a lasciare il Paese (pagando cifre altissime) e vanno verso gli Stati confinanti come Siria, Giordania o Libano, senza aver più voglia di tornare.
Perché?
Hanno paura. Spesso sono gli stessi media occidentali a fomentare divisioni. Penso a quanto fatto da quel pastore statunitense che ha bruciato il Corano o a chi ha travisato il discorso del Papa a Ratisbona. Qualcuno aveva affermato che Benedetto XVI aveva parlato male dell’Islam (tesi rivelatasi subito falsa) e ciò ha provocato tensioni. A volte sono proprio le interpretazioni dei media occidentali a fomentare la paura tra le parti.
Musulmani e cristiani dialogano ancora?
Sì ma con la vita, con gesti concreti. Chi può viene incontro alla necessità dell’altro. Il musulmano spesso ha molto più rispetto per il suo lavoro ed è più onesto di tanti cristiani, il cui rapporto con Dio è forse troppo “familiare”, c’è meno “timor di Dio”. Ci sono tanti esempi di famiglie cristiane aiutate da quelle musulmane vicine di casa o viceversa.
Allora chi fomenta l’odio?
La politica, che strumentalizza le differenze e usa il fondamentalismo. Oggi c’è di fatto una guerra tra musulmani di posizione ideologica diversa, che spesso sfocia nella violenza verso i cristiani.
Qual’è il ruolo dei cristiani in uno scenario come quello iracheno?
Siamo lì per ricostruire l’Uomo, nonostante il dilagare della violenza. Siamo lì per dare ragione della nostra speranza. Molti cristiani si sono messi in gioco e sono in prima linea in questa nuova sfida: annunciare il Vangelo in una terra martoriata dalla guerra. Ciò è possibile se ci si abbandona a Dio, anche nella paura della guerra, con pazienza, un dono che manca anche agli occidentali.