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28 dicembre 2010

Ancora sangue cristiano Il Papa: fermare le violenze



La notte di Natale in cui nasce il Figlio di Dio. Notte nella quale «appare la nuova regalità che Dio istituisce nel mondo». Ma se è vero che «nella vastità universale della santa eucaristia, Egli ha veramente eretto isole di pace», è anche vero che «il bastone dell’aguzzino non è stato spezzato», e «anche oggi marciano rimbombanti i calzari dei soldati e sempre ancora e sempre di nuovo c’è il "mantello intriso di sangue"».

È l’immagine del martirio, accompagnata dalla costante richiesta di pace, che ha attraversato questo Natale del 2010, tra la veglia del 24 e l’Angelus di Santo Stefano. Immagine sul cui Benedetto XVI è stato costretto a tornare pressato da un’attualità che, in Nigeria e nelle Filippine, ha visto «la terra ancora macchiata di sangue». E un’invocazione ormai divenuta un grido costante, risuonato nel messaggio di Natale che una volta di più ha ricordato al modo la pace violata in Iraq e in Medio Oriente, in Somalia e in altre – troppe – parti del mondo, con l’incoraggiamento rivolto ai cristiani perseguitati, in particolare in Cina – brano che però è stato "oscurato" dalle autorità di Pechino.
La pace, dunque, come bene supremo a cui devono tendere tutti gli uomini di buona volontà.
Un’epressione questa, ha spiegato nell’omelia della veglia natalizia, rispetto alla quale «sarebbe sbagliata un’interpretazione che riconoscesse soltanto l’operare esclusivo di Dio, come se Egli non avesse chiamato l’uomo ad una risposta libera di amore». Così come, però, sarebbe parimenti «sbagliata anche un’interpretazione moralizzante, secondo cui l’uomo con la sua buona volontà potrebbe, per così dire, redimere se stesso». "Grazia" e "libertà", insomma, «vanno insieme... e ambedue sono inscindibilmente intessute tra loro». Così, ha proseguito, «questa parola – ha aggiunto Benedetto XVI – è insieme promessa e chiamata. Dio ci ha prevenuto con il dono del suo Figlio. Sempre di nuovo Dio ci previene in modo inatteso. Non cessa di cercarci, di sollevarci ogniqualvolta ne abbiamo bisogno», e tuttavia «aspetta il nostro amare insieme con Lui. Egli ci ama affinché noi possiamo diventare persone che amano insieme con Lui e così possa esservi pace sulla terra».
Per questo, allora, come sottolineato nel messaggio del giorno del 25, il Natale «è motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù». Di qui l’invocazione perché «la luce del Natale risplenda nuovamente in quella Terra dove Gesù è nato e ispiri Israeliani e Palestinesi nel ricercare una convivenza giusta e pacifica», e perché «lenisca il dolore e consoli nelle prove le care comunità cristiane in Iraq e in tutto il Medio Oriente, donando loro conforto e speranza per il futuro e animando i Responsabili delle Nazioni a una fattiva solidarietà verso di esse».
Parole accorate, urgenti, che non hanno mancato di ricordare da una parte quelle popolazioni colpite da calamità naturali – Haiti, Colombia, Venezuela, Guatemala e Costa Rica – e quelle i cui diritti umani umani sono violati, come in Somalia, Darfur, Costa d’Avorio; Afghanistan e Pakistan».
Con una speranza. Una certezza, anzi, visto che quello del Natale è «un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia».