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17 novembre 2010

Si prolunga il razzismo ideologico padre di tutte le guerre di sterminio


di Romanello Cantini

«Sui fiumi di Babilonia noi sedevamo piangendo». Il salmo 136 è stato messo da Renè Guitton in epigrafe al suo libro Cristianofobia dedicato alla persecuzione dei cristiani nel nostro tempo. E non a caso. Secondo alcune fonti il settanta per cento delle violenze contro i cristiani nel mondo si concentrano oggi in quella che una volta era la Mesopotamia. Lì, nonostante che oggi in Iraq non pochi considerino il cristianesimo come una importazione del colonialismo, è nata già nel I secolo la prima comunità cristiana fuori della Palestina, sette secoli prima che nascesse l’Islam e diciannove secoli prima che Churchill inventasse l’Iraq come un coniglio uscito dal suo cappello. In Iraq, dopo l’intervento americano, nel clima di violenza generale i cristiani sono state le vittime più colpite e più innocenti. Sono infatti l’unico gruppo religioso che subisce una guerra civile senza farla. I cristiani iracheni, anche se si trovano in Iraq da duemila anni ed hanno combattuto con lealtà tutte le guerre del paese da quella degli Anni Ottanta contro l’Iran a quella del 1991 contro la coalizione internazionale tanto da essere perseguitato dagli indipendentisti curdi proprio perchè fedeli al loro stato, sono considerati degli agenti dell’Occidente solo perché cristiani. In Iraq si prolunga ancora quel razzismo ideologico del Novecento che è stato padre di tutte le guerre di sterminio per cui chiunque appartiene ad una razza, ad una religione, ad una nazione, deve pagare per la violenza compiuta da un membro di quella razza, di quella religione, di quella nazione.
Già nel 1948 tutti e duecentottantamila ebrei del paese dovettero lasciare l’Iraq al momento della prima guerra arabo-israeliana. È ormai da anni è aperta la stagione della caccia anche contro i cristiani proprio laddove sono più numerosi secondo una strategia che sembra puntare ad una nuova pulizia etnica.
Due anni fa a Mossul (l’antica Ninive dove secondo la tradizione l’apostolo Tommaso aveva fondato la prima comunità cristiana) dopo una serie impressionante di assassini usati come minacce trasversali, ai cristiani è stato ingiunto di andarsene con i ciclostilati messi sotto le loro porte e con il megafono piazzato sopra un automobile. E il piano sembra disgraziatamente a buon punto visto che, secondo Pax Christi, almeno centottantamila cristiani iracheni hanno varcato la frontiera per rifugiarsi in Turchia, in Siria o in Giordania. Gli ottocentomila cristiani iracheni del tempo di Saddam Hussein sono ormai ridotti a meno della metà.
In Iraq tutti i pretesti sono buoni per attaccare i cristiani. Come il pipistrello della favola, che era topo per il gatto e uccello per il falco, i cristiani finora sono stati perseguitati dai curdi perché erano arabi e dai sunniti e dagli sciiti perché erano cristiani. Ma in queste settimane è stato fatto un passo ulteriore verso l’abisso. «Tutti i cristiani sono bersagli legittimi» ha proclamato Al Qaida quindici giorni fa. Per il terrorismo islamico i cristiani, come gli ebrei al tempo di Hitler, sono i nemici senza armi da eliminare anche andando a cercarli in casa dopo averli aspettati in chiesa. I terroristi che sono entrati sparando nella cattedrale sirocattolica di Bagdad venti giorni fa gridavano «Allah è grande» come nelle battaglie di mille anni fa.
Dieci giorni dopo l’attentato il premier al-Maliki si è recato a visitare le cattedrale Nostro Soccorso di Bagdad e ha detto che i cristiani non devono andarsene. Ma l’arcivescovo sirocattolico di Bagdad Matti Shaba Matoka è stato franco: «Nonostante i proclami il governo non fa nulla». E nemmeno gli americani fanno di più dopo essere entrati in Iraq con la giustificazione di piantarvi la democrazia. Eppure in passato le pressioni americane sui curdi li hanno indotti a lasciare in pace i cristiani del Kurdistan. A Mossul sono stati inviati centinaia di poliziotti senza ottenere granché visto che, meno di una settimana fa, sono stati assassinati ancora due cristiani.
Nemmeno l’Occidente «cristiano» sembra mobilitarsi troppo per i cristiani perseguitati. Nel settembre di tre anni fa si manifestò in piazza della Scala a Milano per i monaci buddisti arrestati in Birmania. Nella primavera dell’anno dopo, quando i cinesi arrestarono dei monaci tibetani, si manifestò per i buddisti a Roma, a Milano, a Bologna, a Parigi, a Londra, a San Francisco. In questi giorni per i cristiani hanno manifestato tremila persone a Bruxelles e trecento a Londra. Niente di più. A Sydney hanno manifestato qualche centinaio di arabi, ma non gli australiani. Il ministro Frattini si è incaricato di presentare all’Onu una mozione in difesa della libertà religiosa con l’appoggio dei paesi europei, ma finora Ur e Onu hanno taciuto.
Non sembra che ci sia molto di più da fare che pregare come ci ha detto di fare il Papa questa domenica. «La preghiera – ha scritto Davide Rondoni su Avvenire è l’iniziativa dell’uomo realista, dell’uomo che sa che il destino non è nelle nostre sole mani».
Ma raramente come in questo dramma sentiamo il bisogno della potenza di Dio a cui si chiede di essere Dio di fronte alla nequizia, alla ignavia e all’impotenza degli uomini.