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15 novembre 2010

«Qui c’è la speranza, in Iraq non si può vivere»

By Avvenire, 14 novembre 2010
by Luca Liverani

Più dell’orrore vissuto nella car­neficina della cattedrale di Ba­ghdad, ciò che stupisce di queste donne irachene è la dignità e il contegno con cui lo raccontano.
Faisa Ishak non perde il controllo nemmeno quando dice che, «rien­trata incolume a casa», si è accorta «di avere la giacca sporca del sangue e dei grumi di carne delle altre vitti­me ». Nella hall moquettata della re­sidenza protetta del Gemelli, dove sono stati accolti e coccolati i 19 fa­miliari dei 26 feriti portati a Roma, il terrore della guerra civile irachena sembra lontana anni luce. Ma il cuo­re di queste donne è là: «Il martedì e il mercoledì dopo l’attentato – dice Vivian Kamal hanno assalito le no­stre case a colpi di bombe, nel quar­tiere Ghadir. In pieno giorno, nella capitale, sede del governo e delle for­ze di sicurezza. Era un quartiere cri­stiano. Ora si sta svuotando. Io tor­nerò presto, ho tre figli piccoli lì. Ma così non possiamo vivere. Possono ucciderci ogni giorno».
I 26 feriti – ar­rivati venerdì sera con un C130 del­l’aeronautica militare grazie al lavoro della Direzione generale per la coo­perazione del ministero degli Esteri – sono stati tutti ricoverati, ma non so­no in pericolo di vita. Sei hanno pro­blemi cardiaci o attacchi di panico.
Gli altri lesioni da schegge e proiettili – in molti casi ancora da estrarre do­po due settimane – qualcuno ai ten­dini o ai nervi, uno all’udito, uno agli occhi. Quattro hanno fratture. Il dottor Giorgio Me­neschincheri è il coordinatore del piano di emergenza del Gemelli. «Ho visto occhi pieni di terrore. Ma quando hanno capito che il viaggio era finito e hanno visto medici, infermieri e volontari dedicarsi a loro hanno co­minciato a sorridere. “Ora mi posso rilassare”, ha detto uno, un altro ha parlato di “viaggio della speranza”».
Ma quelle ore in balìa di un manipo­lo di terroristi islamici li hanno mar­chiati a fuoco. Samira George ha i ca­pelli grigi e il volto segnato. «Il 31 ot­tobre eravamo alla Messa delle 17 con nostra figlia. Abbiamo sentito fuori un’esplosione. Celebrava Padre Tahir, e ci ha detto “continuiamo a pregare”. Poi tre giovani, al massimo ventenni, sono entrati e hanno co­minciato a sparare, soprattutto agli uomini. Gridavano: “Lo stato irache­no è islamico”. Chi si muoveva era fi­nito. Quando si sono accorti che mia figlia aveva il cellulare, le hanno spa­rato sulla mano». Noor sarà operata nei prossimi giorni. L’incubo di san­gue dura ore ed ore. «Fuori abbiamo sentito un elicottero – continua Sa­mira – ma nessuno è arrivato per sal­varci. Le forze di sicurezza sono en­trate solo in serata. Mio marito Hik­mat Aziz l’ho trovato solo alle 3 all’o­spedale Al Kindi. È morto lì». Il croci­fisso d’oro al collo di Vivian Kamal spicca sul tailleur nero. «Mia sorella Afnan è stata colpita da un proiettile che le ha distrutto ossa e nervi della mano. Dentro la chiesa, al vespro, i terroristi hanno pregato Allah, poi hanno inneggiato al Jihad e lanciato bombe a mano gridando contro noi “cristiani miscredenti”. Uno, dopo a­vere ucciso anche l’altro prete, padre Wassim, ha avvolto la sua stola attorno al mitra. Mio figlio di 9 anni era con i miei genitori, mio padre s’è nasco­sto sotto i banchi, mia mam­ma Suhaila non ce l’ha fatta. Si sono salvati infilandosi su per i matronei». Il bambino è sotto choc: «Non va a scuola, ha paura delle armi dei soldati».
Faisa Ishak era tra le per­sone barricate in sacrestia: «Abbia­mo messo gli armadi contro la porta, 60 in una stanza. Sentivamo le raffi­che e le urla di chi moriva». I milizia­ni si accorgono di loro: «Hanno lan­ciato bombe a mano dalla finestrella sopra la porta. Mio marito è stato colpito alla testa». Aisha, la chiame­remo così perché preferisce restare anonima, è l’unica islamica del grup­po. Il marito, vigilante di guardia alla vicina Borsa, ha visto i terroristi arri­vare sgommando. «“Attenti ai bambi­ni in strada”, ha gridato. Gli hanno sparato, ha risposto al fuoco feren­done uno, poi l’hanno colpito alla te­sta ».
Padre George Jahola è sfiducia­to. «In chiesa hanno eliminato ogni traccia. Cercano di nascondere que­sta persecuzione. Non abbiamo fidu­cia nel governo, che tenta di nascon­dere la sua fragilità. Testimoni dico­no che la polizia era fuori dalla chie­sa mentre i terroristi uccidevano. Hanno aspettato che finissero le mu­nizioni? Serve una commissione d’inchiesta internazionale. Noi testi­moniamo la fede con la vita, abbia­mo bisogno della preghiera dei cri­stiani. E che la preghiera si trasformi in fatti e azioni».