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20 novembre 2010

Mamberti: Iraq, futuro decisivo per la convivenza fra i popoli

di Gianni Cardinale

«Grandissima preoccupazione», per gli attacchi ai cristiani in Iraq, che hanno suscitato in Occidente con l’eccezione di «alcuni governi», una reazione «piuttosto timida». Con i mass media che hanno dedicato a questi eventi tragici un rilievo «effimero», preferendo invece concentrare la loro attenzione a «problemi di minore importanza».
Lo dichiara l’arcivescovo Dominique Mamberti, corso, 58 anni, dal 2006 segretario della seconda sezione della Segreteria di Stato vaticana – quella che cura i rapporti con gli Stati –, in pratica il “ministro degli Esteri” della Santa Sede. Quello di Mamberti è un osservatorio privilegiato della situazione dei cristiani nel mondo e in particolare in quelle più critiche. Il presule poi è un fine conoscitore del mondo islamico e dei grandi organismi internazionali. In precedenza infatti è stato nunzio apostolico in Sudan ed Eritrea, e prima ha lavorato nelle rappresentanze pontificie in Algeria, in Cile, nella sede Onu di New York, in Libano e presso la Seconda sezione della Segreteria di Stato dove ha seguito in particolare rapporti con gli organismi internazionali.
Eccellenza, con quale animo la Segreteria di Stato guarda ai recenti episodi che hanno visto i cristiani vittime di ripetuti attacchi e agguati in Iraq?
Con grandissima preoccupazione. Le comunità cristiane soffrono ingiustamente, hanno paura e si trovano in una situazione di tale difficoltà che molti cristiani decidono di emigrare. Ma con loro anche tutto il Paese si vede seriamente danneggiato. Eppure i cristiani sono presenti in Iraq dagli inizi della storia della Chiesa, hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo della società, specie in ambito culturale, e, anche nelle circostanze attuali, hanno vocazione ad essere artefici di pace e di riconciliazione.
Cosa sta facendo la Santa Sede per cercare di alleviare questa situazione?
La Santa Sede agisce a diversi livelli. Innanzitutto, il Santo Padre non si stanca di esprimere la sua premurosa vicinanza alle vittime e alla comunità cristiana, incoraggiando Pastori e fedeli ad essere forti nella speranza. Ha subito stanziato 100mila dollari per l’aiuto alle famiglie. Allo stesso tempo ha chiesto alle istituzioni irachene e a quelle della comunità internazionale di unire le forze per porre termine alla violenza. Attraverso i nostri canali diplomatici stimoliamo l’attenzione delle autorità e di vari governi alla sorte di questi nostri fratelli e continueremo a farlo, anche dopo che la luce dei riflettori si sarà spenta: si tratta di una nostra priorità. Ovviamente, una sollecitudine particolare va riservata ai feriti ed apprezziamo che alcuni Paesi, come l’Italia, la Francia e la Germania, ne abbiano accolto un gruppo affinché siano curati nelle proprie strutture sanitarie.
Cosa può fare la Comunità internazionale?
La Comunità internazionale dovrebbe prendere a cuore la questione, giacché sono in gioco principi fondamentali per la dignità umana e per una convivenza pacifica ed armoniosa delle persone e dei popoli. Se la convivenza tra comunità diverse non fosse più possibile laddove essa si è praticata durante i secoli, sarebbe un segno di pessimo augurio per il mondo intero. Dopo gli attentati della settimana scorsa, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso una forte condanna attraverso una dichiarazione del suo Presidente e la questione sarà trattata la settimana prossima al Parlamento europeo a Strasburgo, ma alle parole devono seguire i fatti.
Il mondo occidentale è cosciente di quello che sta avvenendo? Sta reagendo a questa ondata di vessazioni?
Penso che per mondo occidentale Lei si riferisca soprattutto all’Europa e agli Usa. All’infuori di alcuni governi, la reazione è stata piuttosto timida, quantomeno a livello pubblico. Anche il rilievo dato dai grandi mezzi di comunicazione sociale è effimero e problemi di minore importanza attirano molto di più la loro attenzione. La recente Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi aveva anche lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla situazione dei cristiani in quella Regione, ma c’è ancora molto da fare.
Dal suo punto di osservazione privilegiato qual è l’ampiezza del fenomeno degli attacchi alle comunità cristiane?
In Iraq non sono soltanto i cristiani a soffrire; anzi, si registrano, quasi ogni giorno, numerose vittime musulmane. Tuttavia è vero che in una situazione di insicurezza e instabilità chi paga maggiormente il prezzo sono le minoranze più indifese e, in questo caso, i cristiani. Si calcola che, dal 2003 ad oggi, circa la metà dei cristiani abbia lasciato il Paese e si teme che, con questi ultimi episodi di violenza, l’emorragia continui. Dal 2003, circa 900 fedeli sarebbero stati presi di mira e uccisi in quanto cristiani, tra i quali non posso non ricordare monsignor Paulos Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul dei Caldei nel 2008.
Si tratta di attacchi di natura religiosa?
Lo scopo degli attentati terroristici sembra anzitutto politico: si vuole destabilizzare il Paese o alcune sue componenti. Tuttavia sia nelle motivazioni che nel modo di realizzare gli attacchi ci sono elementi religiosi e ciò è molto preoccupante. Basta leggere il comunicato emesso in seguito al recente attacco alla cattedrale siro-cattolica di Baghdad. Proprio per questo è doveroso che le persone e le comunità religiose manifestino il più netto e radicale ripudio della violenza, di ogni violenza, a partire da quella che pretende di ammantarsi di religiosità, facendo addirittura appello al nome sacrosanto di Dio per offendere l’uomo. «L’offesa dell’uomo è, in definitiva, offesa di Dio» come ha ricordato più volte il Santo Padre.
Allargando l’orizzonte alla situazione regionale, quanto influisce la mancanza di una pace duratura in Terra Santa nella situazione critica dei cristiani in Medio Oriente?
È noto a tutti il difficile contesto socio politico nel quale vivono le comunità cristiane in quelle terre a causa di diverse tensioni e conflitti che attendono da tempo un’adeguata soluzione. La situazione del Medio Oriente costituisce una delle più serie minacce alla stabilità internazionale. Non si tratta di un conflitto solo regionale: la sua valenza politica, simbolica ed emotiva raggiunge anche popoli lontani. In tale quadro la pace va cercata tramite una soluzione “regionale”, che non trascuri gli interessi di nessuna delle parti, e “negoziata”, cioè che non sia frutto di scelte unilaterali e imposte con la forza. Se ciò avverrà ci saranno ripercussioni positive sulla situazione dei cristiani che, come ho già detto, vogliono essere artefici di riconciliazione e di pace.
Oltre a quelli violenti, si avvertono anche atti di persecuzione più “soft” nei confronti dei cristiani mediorientali?
Oltre ai casi di persecuzione vera e propria, ci sono molte situazioni in cui i cristiani vengono discriminati o emarginati. A volte capita che non possano professare pubblicamente la propria fede e, talvolta, nemmeno possedere libri od oggetti religiosi. In altri contesti subiscono una discriminazione pratica, non potendo accedere a cariche politiche o amministrative di livello superiore. Tale situazione riguarda le singole persone, ma anche le comunità in quanto tali, che costituiscono così delle minoranze, non solo in quanto alla consistenza numerica, ma anche in quanto ai diritti. Ciò non corrisponde agli standard internazionali in materia di diritti umani e spesso non è neppure conforme alle convenzioni sottoscritte dagli stessi Paesi in cui ciò avviene.