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22 novembre 2010

La preghiera della Chiesa italiana per i cristiani in Iraq. Don Sacco: senza cristiani il Medio Oriente sarebbe snaturato

By Radiovaticana

La Chiesa italiana ha dedicato la giornata di ieri alla preghiera per i cristiani perseguitati in Iraq, ricordando in particolare l’attentato del 31 ottobre scorso alla Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, costato la vita a oltre 50 fedeli, tra cui numerosi bambini e due sacerdoti.
Sul significato dell’iniziativa, Giancarlo La Vella ha intervistato don Renato Sacco, di Pax Christi, particolarmente vicino ai cristiani iracheni:
Innanzitutto, colpisce il guardare alla grande sofferenza di una situazione che si prolunga nel tempo, e al fatto che ogni anno questa situazione cresce. Basta ricordare i numeri: in questi ultimi cinque anni, più di 900 cristiani uccisi - diversi preti e un vescovo, quello di Mosul - e più di 50 chiese attaccate… E’ una strage, una tragedia, un momento di grande paura, con il rischio reale che i cristiani in quella terra perdano la fiducia di poter restare, ma forse non la speranza di poter restare. Certo, la fatica è molto grande e credo che ci sia in gioco una grande spartizione di potere, dove sono le minoranze a pagare.
Sul piano istituzionale, intanto, si sta creando il nuovo Iraq, col rischio che ne venga fuori un Paese senza l’importante apporto - che storicamente c’è sempre stato - dei cristiani ormai costretti all’esodo: che Iraq sarebbe quello senza una parte così importante?
Come dicono in molti, anche musulmani, un Iraq senza cristiani non solo rappresenterebbe una grande perdita, ma sarebbe una sconfitta per l’Iraq, per tutto il Medio Oriente e - credo - con riflessi per tutta la comunità internazionale: se la pace è la convivialità delle differenze, creando un Paese dove le differenze non esistono più, si rischia di cancellare la possibilità della convivenza. Io credo sia invece importante fare di tutto perché ci sia questa convivenza etnica, culturale, religiosa, politica, di appartenenza… L’Iraq è un mosaico: cancellare questo mosaico, sarebbe un disastro.
Secondo lei, c’è una strada da suggerire agli iracheni e a tutta la comunità internazionale per riportare, anzitutto, la pace nel Paese?
Una questione è sicuramente rappresentata dal grande business delle armi: la guerra - come sappiamo - è una grande occasione di guadagno. Nel 2009, l’Iraq ha stipulato contratti di alcuni miliardi di euro. Questo vuol dire che in quella terra, già così segnata da morte e da violenze, invece di inserire elementi e strumenti di pace, noi inseriamo strumenti di guerra, che non fanno altro che alimentare l’odio. Proprio domani parleremo di questo a Roma, davanti al Senato, perché l’Italia ha una legge importante - la 185 del ’90 - voluta soprattutto dagli ambienti missionari e religiosi: ora si vorrebbe allentare il controllo, favorendo la vendita e l’export delle armi. Credo che questa non sia una strada per la pace.