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15 novembre 2010

Echi dall’Iraq crocifisso

By ZENIT
di Robert Cheaib

Quando si tratta di bambini che muoiono in nome di un’ideologia che crede di fare la volontà di Dio uccidendo lattanti, giovani incinte, sacerdoti e anziani, un giornalista cristiano non può essere professionale se non professa il suo sdegno, e se non cerca di essere, non solo eco indifferente dei fatti, ma voce che fa la differenza; di essere voce di chi la voce non ce l’ha più perché il suo grido è stato soffocato dalla violenza e annegato dalle lacrime.
Tante persone vorrebbero dare una mano ai cristiani perseguitati in Iraq, ma spesso si trovano senza mezzi o senza idee. La preghiera è senz’altro fondamentale, ma la preghiera vera si corona con la concretezza. Per questo, l’edizione araba di ZENIT ha deciso di dare voce a persone coinvolte da vicino nel dramma iracheno, per sentire da loro non tanto le grida di disperazione, ma le proposte di speranza e gli echi di una risurrezione possibile per i cristiani crocifissi dell’Iraq.
Per tutelare la privacy e la sicurezza delle persone che abbiamo interpellato, nonché dei loro familiari in Iraq, abbiamo preferito riportare le iniziali dei cognomi.
Il ruolo dei media

Il sacerdote iracheno Albert N., amico e collega di studio dei padri Thaer e Wassim, ci ha scritto: «Come cristiano e iracheno io chiedo a tutti di impegnarsi per far sentire in tutto il mondo la voce dei cristiani iracheni usando l’autorità dei mezzi di comunicazione, perché i nostri mezzi propri sono limitati e poveri, e abbiamo veramente bisogno di un mezzo mediatico forte e multilingue per far giungere la nostra voce e il nostro grido alle autorità governative internazionali».
Ha inoltre spiegato che quello che si conosce delle sofferenze dei cristiani in Iraq è soltanto una goccia in un oceano. I loro drammi non si limitano certamente alla strage della chiesa di Saydet Al-Najat. Per questo ha invitato a rendere noti «tutti i violenti omicidi, eccidi, persecuzioni e rapimenti ai quali i cristiani sono esposti quotidianamente» senza attirare i riflettori dei media. Ed ha insisto nel dire che quest’opera è una «testimonianza necessaria alla verità, l’unica capace di salvare il mondo».
Gli iracheni in diaspora

Un’altra lettera ci è pervenuta dal sacerdote libanese padre Antonio F., che da diversi anni aiuta i rifugiati iracheni, musulmani e cristiani, in Monte Libano. Il sacerdote ci ha chiesto di attirare l’attenzione non solo sui cristiani presenti in Iraq, ma anche sui tanti iracheni, cristiani e musulmani, dimenticati da diversi anni in piccole nazioni come il Libano. Dimenticati perché non fanno notizia o scoop, anche se «ammontano a diverse migliaia, e richiedono un reale sostegno materiale e morale».
Migliaia di iracheni sono stati accolti nei Paesi confinanti, e nel caso del Libano – come ci ha spiegato padre Antonio – ci sono serie difficoltà nel portare avanti economicamente questo impegno assunto con gratuità e generosità. Pertanto, ha lanciato l’appello alle grandi organizzazioni umanitarie affinché diano una mano alle chiese, ai conventi e alle piccole comunità libanesi che da anni si dedicano ad aiutare i rifugiati iracheni.
Creare futuro

La dottoressa W. W., attivista umanitaria irachena che ha perso nell’ultimo attentato ben sette amici, ha descritto così la situazione: «I cristiani in Iraq sono divisi tra chi vuole resistere e rimanere, e chi ha paura e vuole andarsene perché la situazione è veramente e gravemente precipitata». Ed ha aggiunto: «So che la Chiesa desidera che la gente non emigri, ma la situazione ora è molto più grave del preservare la tradizione e la civiltà cristiane tanto radicate in questa terra… in gioco ci sono le vite di persone e non posso immaginare che la Chiesa, che è madre e maestra, preferisca le pietre alle persone».
Da qui ha invitato tutti i cristiani del mondo, e soprattutto in Occidente, a fare dei passi concreti per creare futuro per i cristiani dell’Iraq, aiutandoli a trasferirsi in altre nazioni: «Sapendo che è utopico chiedere a ogni famiglia in Europa di adottare una famiglia irachena, suggerisco una cosa più pratica: che ogni parrocchia adotti una famiglia cristiana dall’Iraq, per permetterle di ripartire con una vita dignitosa».
Una nuova diffusione della fede

Infine, il monaco Boulos M. ha chiesto alle autorità internazionali e alle comunità cristiane di esigere dalle nazioni islamiche e dai musulmani una denuncia aperta e chiara di questi atti barbarici, ed ha invitato a non rimanere spettatori passivi dinanzi a questo eccidio «perché se lo rifiutano veramente allora lo devono anche denunciare apertamente». E assieme ai passi concreti, ha incoraggiato a elevare lo sguardo verso la nostra speranza cristiana «giacché la Chiesa è iniziata così: dopo la Pentecoste è venuta la persecuzione, e proprio con la persecuzione si è diffusa la Chiesa».
In questo contesto, ha ricordato il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente tenutosi in Vaticano dal 10 al 24 ottobre scorsi e che è stato paragonato a «una nuova Pentecoste», ed ha aggiunto: «ecco, dopo questa nuova Pentecoste, si ripete lo stesso scenario antico e sopraggiunge la persecuzione. Gioite quindi cari martiri perché il Signore ha ascoltato il grido del vostro sangue che sarà le fondamenta di nuove chiese e il seme di nuovi cristiani».
Ed ha citato un passo ancora attuale di sant’Ignazio d’Antiochia che scrive: «Per gli altri uomini “pregate senza interruzione”. In loro vi è speranza di conversione perché trovino Dio. Lasciate che imparino dalle vostre opere. Davanti alla loro ira siate miti; alla loro megalomania siate umili, alle loro bestemmie opponete le vostre preghiere; al loro errore “siate saldi nella fede”; alla loro ferocia siate pacifici, non cercando di imitarli. Nella bontà troviamoci loro fratelli, cercando di essere imitatori del Signore. Chi più di lui ha sofferto di più l'ingiustizia? Chi come di lui ha avuto più privazioni?». E infine ha concluso dicendo: «Tutto ciò che possiamo fare è mostrare al mondo che l’amore è più forte della spada».