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21 luglio 2009

Baghdad resta sola


N° 30 del 26 luglio 2009

di Fulvio Scaglione

Le divisioni etniche e politiche, la spartizione del petrolio, le mire della guerriglia, le interferenze iraniane. Il Paese è chiamato a fare a meno delle truppe americane. Ce la farà?
Gli americani se ne vanno, gli iracheni festeggiano, i cristiani muoiono. Il riassunto è un po’ brutale, ma non è falso. A fine giugno i generali americani hanno ceduto ai loro colleghi iracheni il controllo di quasi 200 basi e avamposti creati nei sei anni passati dall’attacco a Saddam Hussein, e hanno concentrato i loro 130 mila soldati nelle grandi città dell’Irak. Se il programma fissato dal presidente Obama sarà rispettato, entro l’agosto 2010 se ne andranno dal Paese 90 mila uomini Usa, che entro il dicembre 2011 saranno raggiunti a casa dagli altri 35 mila.
In modo sorprendente per noi, ma tipico per il Medio Oriente, i politici e i militari iracheni hanno festeggiato come un trionfo quel primo, parziale ritiro. Il loro regime nemmeno esisterebbe se non ci fosse stato l’intervento americano e nel 2008 più di 2 milioni e mezzo di iracheni (su 29 milioni di abitanti) hanno tirato avanti grazie ai 207 milioni di dollari di aiuti umanitari delle agenzie Onu. Eppure, il premier Nur al Maliki ha parlato di «grande vittoria», di «cacciata degli occupanti» e ha paragonato l’evento all’insurrezione contro gli inglesi degli anni Venti. Al popolo iracheno, con tutto quel che ha passato, si possono solo fare gli auguri. Ma i fatti concreti non possono essere ignorati.
Il primo, il più drammatico ed evidente, è la ripresa del terrorismo. Negli ultimi venti giorni, almeno 500 morti e molte centinaia di feriti, in aperta sfida alla nuova autonomia dell’Irak. Attacchi mirati, frutto di piani stesi a tavolino e non di faide o vendette rabbiose. Stragi preordinate a Baghdad, nel quartiere di Sadr City, bastione degli sciiti; a Kirkuk, città del petrolio, snodo di oleodotti, capoluogo di una regione ricca di giacimenti, da anni contesa tra i curdi (che vorrebbero inglobarla nel loro Kurdistan, regione ormai un po’ più che autonoma rispetto al Governo centrale) e gli arabi che, siano sciiti o sunniti, vogliono tenerla alle redini di Baghdad. E poi, ancora, l’assalto ai cristiani: 6 chiese caldee e 3 siro-ortodosse colpite con bombe, dinamite, benzina. Il più grave a Baghdad, in Palestine Street, dove un’autobomba contro la chiesa della Vergine Maria (dove tra l’altro risiede il vescovo Shlemon Warduni, vicario patriarcale, ha fatto 4 morti e decine di feriti tra i fedeli.

Obama non è convinto

È una ripresa in grande stile degli attacchi a sfondo religioso che, negli anni scorsi, hanno dimezzato la comunità cristiana, costringendo centinaia di migliaia di persone all’esilio. E se fossero anche confermate le notizie in arrivo da Mosul e diffuse dal sito Baghdadhope (http://baghdadhope.blogspot.com), di solito bene informato, i fedeli cristiani non sarebbero gli unici nel mirino: là, infatti, la bomba è stata posta tra la chiesa cattolica e la moschea sciita, costruite fianco a fianco, proprio per non far capire quale fosse il vero bersaglio.
È facile pensare che dietro tutto questo ci sia la mano dell’Iran. Barack Obama, quando si parla delle ambizioni nucleari iraniane, insiste sul negoziato perché sa bene che il regime degli ayatollah, pur scosso alle radici dalla protesta dopo le elezioni-farsa, troverebbe proprio in Irak un terreno perfetto per un’eventuale "guerra preventiva". La Casa Bianca ha bisogno che la transizione irachena proceda senza troppe scosse per concentrare truppe ed energie sul non meno pericolante Afghanistan, oltre che per dare un impulso alla pace tra israeliani e palestinesi e, con questo, proseguire sulla strada della distensione con il mondo islamico.
Anche per questo Obama ha lasciato più volte trapelare un certo scontento per gli scarsi progressi politici realizzati dal regime di Al Maliki nei rapporti di potere tra sciiti (che fanno la parte del leone) e sunniti (i cui capi tribù avevano stipulato un patto di ferro con il generale Petraeus) e tra arabi e curdi.
La prima questione influisce sulla pacificazione del Paese. L’arruolamento dei sunniti nelle milizie filoamericane (i Figli dell’Irak, i Consigli del Risveglio), con tanto di armamenti e salari, è stato il segreto della clamorosa riduzione degli attentati, calati dell’80% tra 2007 e 2008. Ma il dissidio tra arabi e curdi influisce sulla spartizione delle riserve petrolifere, decisiva per il futuro dell’Irak che ha 115 miliardi di barili di riserve accertate, punta a una produzione di 6 milioni di barili al giorno (per un confronto: nel 2008 la Russia era sui 10 milioni di barili al giorno) entro il 2017 ma per il momento è fermo a 2,5 milioni di barili, ai livelli della disastrata industria dei tempi di Saddam Hussein.
Nelle scorse settimane Hussein al Sharistani, ministro del Petrolio, ha messo all’asta i contratti per lo sfruttamento di sei giacimenti di petrolio e due di gas, con l’Eni interessata al greg-gio dell’area di Nassiriya, a noi italiani tragicamente nota. Ma il vice premier, il curdo Tareq al Hashemi, ha subito annunciato il boicottaggio della gara, mentre il Kurdistan da tempo sfrutta le proprie risorse naturali senza rispondere al Governo di Baghdad. Non a caso, l’asta di Al Sharistani ha visto assegnati i contratti per tre soli giacimenti.
Su tutto aleggia poi lo spettro delle elezioni politiche di gennaio 2010. Fino ad allora saranno frenetiche le trattative per la spartizione del potere: tra gli sciiti, tra sciiti e sunniti, tra arabi e curdi. Chi non sarà soddisfatto della "fetta" ottenuta potrebbe voler sfruttare la minore efficienza dell’esercito e delle forze dell’ordine iracheni per mandare a chi di dovere messaggi di distruzione e magari di morte. La vera speranza sta nella maturità del popolo iracheno, che vede come una disgrazia l’eventuale smembramento del Paese e ha troppo sofferto per accettare passivamente un ritorno alle violenze etniche e settarie.

UNA GRANDE SFIDA PER I CRISTIANI
«I cristiani non costituiranno milizie private per difendere le chiese». Monsignor Benjamin Sleiman, arcivescovo dei cattolici di rito latino di Baghdad, dopo gli ultimi attentati e i morti davanti alle chiese cristiane della capitale irachena, spiega che le milizie private «sono un problema per la società irachena: lo è ogni arma nelle mani dei cittadini». Sleiman è di orgine libanese e sa bene a cosa può portare la "giustizia fai-da-te". Nella sede della Caritas italiana a Roma fa il punto sulla situazione del Paese: «Il problema più grave è la riconciliazione tra le etnie e la divisione del Paese su base etnica, prospettata dal Governo di Baghdad e appoggiata dagli america-ni, che non porterà alla pace, ma a una nuova guerra. Nessuno da noi ha esperienza di uno Sato federale».
Secondo monsignor Sleiman gli attentati alle chiese sono un tentativo di spingere i cristiani fuori dalla capitale. Il progetto di divisione del Paese assegna ai cristiani una zona intorno a Ninive, sulla strada che porta verso il Kurdistan, ma la Conferenza episcopale, per due volte, l’ha già respinto: «Non vogliamo fare da cuscinetto tra un Kurdistan autonomo e le altre regioni». Oggi la metà dei cristiani presenti in Irak prima della guerra ha lasciato il Paese e gli altri, conferma il vescovo, «sognano di partire».
La Chiesa irachena, attraverso la Caritas, sta dando aiuto, tuttavia, non solo alle famiglie dei cristiani. In 12 centri sparsi per il Paese dà da mangiare a quasi 24 mila bambini denutriti e a 8 mila mamme incinte. Un programma specifico di aiuti alimentari è stato predisposto per anziani e handicappati anche con il sostegno finanziario delle Caritas di Brescia e di Bergamo. Poi c’è un progetto di formazione per giovani che mette la pace e la riconciliazione al primo posto. Spiega Nabil Naisam, direttore laico della Caritas irachena: «Dobbiamo occuparci di far crescere una società civile, per ricostruire un tessuto sociale dove i diritti umani e il rispetto della libertà, non solo religiosa, siano effettivi».
di Alberto Bobbio