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5 marzo 2009

Ma noi non ci arrendiamo

Fonte: Tempi
numero 10 05 Marzo 2009

«Preferisco morire da martire in patria che vivere da schiavo ovunque altrove».
Così rispondono i caldei iracheni alle violenze dei terroristi islamici che li stanno decimando
di Ida Soldini

Beirut - Politici e militari. Membri del parlamento e media di tutto il Medio Oriente. Autorità religiose sia cristiane che musulmane. Non mancava proprio nessuno al convegno delle Chiese cristiane d’Oriente intitolato “Cristiani d’Iraq: Agonia di una presenza o resurrezione” che si è svolto a Beirut lo scorso 19 febbraio. Scopo dell’iniziativa, voluta dal vescovo caldeo di Beirut Michel Kassarji e ospitata dall’università di Notre Dame de Louaizé dei maroniti: affermare che la presenza dei cristiani in Medio Oriente è minacciata gravemente e che la sua perdita sarebbe una tragedia per tutti i popoli della regione.
«Tutti hanno contribuito all’esclusione dei cristiani iracheni, e molti ne facilitano la partenza», ha detto monsignor Kassarji nel suo intervento. A«Dal buio di questo tunnel, noi cominciamo però oggi a prendere coscienza del fatto che se i cristiani vanno perduti, allora tutti si perdono. Perché la tradizione musulmana non ha mai conosciuto una simile esclusione dei cristiani dalla vita dei vari paesi. Con questo convegno vogliamo lanciare l’allarme a riguardo del destino dei cristiani iracheni. Il modello iracheno è un’anticipazione di quanto è destinato ad accadere in tutto il Medio Oriente: un processo il cui unico esito possibile è lo svanire della presenza cristiana. I nostri antenati hanno vissuto le persecuzioni: la loro esperienza ci scorre nelle vene, è il nostro stesso sangue, e per questo noi dobbiamo restare. Ed è possibile che ciò avvenga, se ci verrà dimostrato anche solo un briciolo di solidarietà».
Ad ascoltarlo c’erano rappresentanti di tutte le Chiese e i riti cristiani del Libano: melchiti, caldei, assiri, maroniti, armeni, greco-ortodossi e tutti gli altri. Ma c’erano anche i rappresentanti dei musulmani sunniti e dei drusi, l’islamico Mohammad Sammak, segretario generale del Comitato cristiano-musulmano per il dialogo, gli ambasciatori di Spagna e dell’Iraq, il responsabile dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi a Beirut, esponenti di tutti i partiti libanesi e tante, tante televisioni libanesi ed arabe: Anb, Lbc, Future Tv, Tele Lumiere (cristiana), Noursat, Otv, Sat 7 (cristiana libanese internazionale), Sumariya (irachena) Al Jazeera e Kurdistan Satellite Channel (la tivù del Partito democratico del Kurdistan iracheno).Tanti gli oratori che si sono succeduti sul podio, ma nessuno di loro ha pronunciato la benché minima accusa nei confronti dei gruppi di popolazione ai quali appartengono gli autori di omicidi, stupri, furti, intimidazioni, attentati che si succedono come uno stillicidio e che hanno talmente provato i cristiani iracheni da far perdere loro la speranza di un futuro possibile nel paese in cui vivono da 2.000 anni. Nessuno degli interventi ha citato né l’etnia né la confessione degli autori di atrocità che pure sono rivendicate, le cui intenzioni sono dichiarate. Una madre la cui figlia è stata rapita, violentata e che in seguito è stata buttata morta sulla piazza del paese ha detto di aver ricevuto questa telefonata: «Non vogliamo soldi, l’abbiamo fatto per spezzarvi il cuore».

L’ambasciatore si alza e se ne
va
Mohammad Sammak è intervenuto per sottolineare che il diritto dei cristiani a restare è fondato sulla lettera del Corano. Nonostante tutto questo qualcuno si è offeso: l’ambasciatore iracheno in Libano ha abbandonato il consesso nel bel mezzo del suo svolgimento, offeso perché ha ritenuto che lo Stato iracheno sia stato accusato di inadempienza nei confronti dei cristiani. Si è offeso perché il problema è stato semplicemente posto, perché è stato detto che un problema c’è.Tre i vescovi caldei iracheni presenti ai lavori, ospiti dell’Eparchia caldea di Beirut che si trova non lontano da uno dei grandi quartieri sciiti della città. C’erano l’arcivescovo di Kirkuk, monsignor Louis Sako, ben noto ai lettori di Tempi, il vescovo ausiliario di Baghdad Mar Andraos Abouna, dotato di uno humor raffinato e contagioso, e Mar Micha Maqdassi, vescovo di Al Qosh (la cittadina presso il cui monastero durante il XVI secolo i cristiani assiri decisero di ricongiungersi con Roma), un montanaro del nord, come egli stesso si definisce, borbottando fra sé: «Io preferisco morire martire nel mio paese che vivere da schiavo ovunque altrove».
Ma c’erano anche esponenti della Chiesa assira orientale, cioè di quei cristiani iracheni che sono rimasti separati da Roma anche dopo il 1553. Il loro atteggiamento riempie di stupore: nonostante provengano da una realtà in cui la tragedia è la stoffa del quotidiano, nell’incontrarli ci si accorge che questi uomini non sono né impauriti né rancorosi, né tristi né disperati, né arrabbiati né hanno sete di vendetta. Costruiscono. Come monsignor Kassarji, che dopo anni di sforzi è riuscito a entrare in possesso di uno stabile in cui realizzare il centro medico-sociale a favore dei rifugiati iracheni presenti a Beirut (per il quale Tempi aprì nel 2007 una sottoscrizione fra i lettori). Al terzo piano di una palazzina nel quartiere di Bir Hassan, sono incominciati i lavori di ristrutturazione: i muri sono stati abbattuti per far spazio a due ambulatori medici, un gabinetto dentistico, un centro di aiuto sociale, un’aula di formazione. Kassarji forse è ottimista, ma parla di inaugurazione fra tre mesi. La sua intenzione è servire senza distinzione di appartenenza etnica o confessionale le persone che si rivolgeranno al centro. Crede che sia possibile fornire assistenza sanitaria a prezzo molto ridotto a chi non avesse risorse proprie, e pensa che a regime questa iniziativa possa rispondere in modo adeguato alle necessità degli iracheni in Libano. Vorrebbe però che l’Occidente facesse di più la sua parte: «Le istituzioni internazionali sono assenti, e si chinano solo con estrema precauzione su questo dossier. Le iniziative sono timide nell’energia investita e modeste nelle dimensioni degli interventi attuati. Così si lascia che i cristiani si dibattano nel loro dolore. Eppure noi siamo certi che la nostra presenza è importante per il Medio Oriente, una terra che i cristiani da sempre hanno contribuito a far fiorire».