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1 dicembre 2008

Istanbul. Istiklal Caddesi 325. Capolinea degli iracheni cristiani in Turchia.


By Baghdadhope

Se foste ad Istanbul e vi trovaste a passare alla domenica mattina presto per Istiklal Caddesi, la trafficata ed animata arteria pedonale che da piazza Taksim fino allo slargo di piazza Tünel attraversa l’ottocentesco quartiere di Beyoglu, vedreste probabilmente tra le rare persone che la percorrono a quell’ora dei passanti che camminano frettolosi, lo sguardo a terra, gli abiti dignitosi ma a ben guardare dimessi.
Se seguiste il loro andare vedreste che non si fermano per il primo caffè della giornata, né indugiano a guardare le vetrine dei negozi ancora chiusi, ma proseguono fino a scomparire sotto degli archi ed attraversare il cortile della chiesa di Sant’Antonio da Padova, in Istiklal Caddesi al 325.
Se poi aveste la pazienza e la curiosità di seguire quei passanti frettolosi li vedreste attraversare il cortile e sparire giù per una scala a sinistra della chiesa fino a raggiungere la cripta al di sotto di essa, magari dopo un breve sguardo alla statua bronzea che ricorda la visita che Benedetto XVI fece in Turchia nel 2006, e dopo essersi segnati con la croce in segno di deferenza.
E se anche voi scendeste quelle scale vi stupireste di essere accolti da una litania in una lingua sconosciuta che però non “suona” turco e non è certamente né l’inglese né l’italiano usato nelle celebrazioni al piano di sopra, e magari vi stupireste se qualcuno vi dicesse che state ascoltando la musicalità della lingua aramaica o quella araba.
E se fosse estate sareste colpiti dal calore e dall’umidità che le pareti della cripta trasudano e che è moltiplicato per le decine o centinaia di persone che la affollano. E guardando quelle persone capireste dalle loro espressioni che hanno molto sofferto nella vita, e che le loro storie potrebbero riempire pagine e pagine di un libro ancora non scritto: la fuga degli iracheni cristiani.
“Una volta, celebrando la Santa Messa, una fedele, una giovane ragazza, è svenuta proprio davanti ai miei occhi” mi ha raccontato Padre Amer Youkhanna, sacerdote caldeo che studia a Roma ed è ormai prossimo alla licenza in Teologia Morale, e che a settembre ha prestato il proprio servizio per la comunità di Istanbul.
Quello a cui Padre Amer si riferiva è uno dei tanti problemi che la comunità irachena caldea che ha trovato rifugio in Turchia fuggendo da guerra e violenza deve affrontare. Ad Istanbul sono due le chiese che li accolgono per le funzioni, come ha spiegato nel 2006 il Vicario Patriarcale di Diarbekird ed Amida dei Caldei, Padre François Yakan, in un bel reportage per l’Osservatore Romano: la cappella dell’Arcivescovado e la cripta della chiesa di Sant’Antonio da Padova che è affidata all’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Se nella cappella dell’Arcivescovado si riunisce prevalentemente la comunità caldea turca tanto che le lingue liturgiche usate sono, appunto, l’aramaico ed il turco, è nella cripta di Sant’Antonio che invece si ritrovano, si contano e si raccontano i caldei che in Turchia ci sono arrivati per disperazione.

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Non c’è aria in quella cripta” ha ricordato Padre Amer, “il contratto di locazione sottoscritto con i frati francescani non prevede modifiche al locale e quindi non si possono fare installare né condizionatori né apparecchiature per il semplice ricambio dell’aria. Neanche nella chiesa ci sono, ma almeno lì le aperture verso l’esterno permettono il ricambio, giù è un inferno e se usassimo dei ventilatori da pavimento i consumi elettrici schizzerebbero alla stelle. D’altra parte la curia arcivescovile non potrebbe affrontare le spese per uno spazio proprio. Il numero dei fedeli non è costante, varia a secondo la concessione dei visti per i paese terzi. Bisognerebbe però tenere in maggiore considerazione le condizioni di quei fedeli, così già duramente provati, e cercare di alleviarle. Ritrovarsi per la Santa Messa per loro non è solo una questione di fede, ma anche un momento di aggregazione importante.”
Era amareggiato Padre Amer mentre mi raccontava la sua esperienza in Turchia. Non che lui non sapesse cosa volesse dire soffrire, basti dire che viene da Mosul, dove è nato 27 anni fa, e dove ha vissuto fino al settembre 2003 quando è arrivato a Roma per studiare prima presso Propaganda Fide Teologia, e poi presso l’Accademia Alfonsiana per specializzarsi in Teologia Morale grazie ad una borsa di studio concessagli dal Pontificio Collegio Irlandese.
“Forse non è giusto dirlo” ha continuato, “ma fa davvero impressione scoprire che molte di quelle persone senza speranza che la guerra ha portato in Turchia dove ora vivono di carità o di piccoli lavori, a casa in Iraq, erano benestanti. Gente che aveva studiato, che aveva delle proprietà, che voleva rimanere in patria e che ora non ha più nulla.”
Già. Perché se il problema dell’umidità nella cripta di Sant’Antonio affligge la comunità durante la Messa, quelli legati alla situazione che essa vive in Turchia sono giornalieri.
E’ stato sempre Padre Amer a spiegarmi cosa succede ad un profugo iracheno – nel nostro caso cristiano – che arriva in Turchia.
Prima cosa di tutto bisogna ricordare che la Turchia non concede visti agli iracheni in fuga, e quindi accade che nella maggior parte dei casi essi arrivino con un visto turistico della durata di un mese. Con i soldi che sono riusciti a racimolare vendendo – o meglio sarebbe dire, svendendo – le loro proprietà in Iraq, queste persone si affidano alla “rete” di profughi che già vivono in Turchia. Parenti ed amici sono i primi referenti. C’è da trovare una sistemazione ed ecco che gli appartamenti si affollano di vecchi e nuovi arrivati. Alcuni, i più fortunati, a volte “ereditano” una casa, nel senso che una famiglia cui finalmente è stato concesso il visto di emigrazione, fa sì che un’altra le subentri nell’affitto dell’appartamento, magari lasciando ai nuovi inquilini i mobili e le suppellettili di casa. Un segno benaugurante per chi parte per cercare fortuna altrove ed un sollievo per chi può finalmente può contare su un letto ed un armadio.
Il mese concesso dal visto turistico passa in un baleno. Tutto è nuovo. La città, le leggi, la gente, la lingua, ed infatti Padre Amer mi ha fatto notare come, a suo parere, la situazione dei profughi iracheni in Turchia sia peggiore di quelli in Siria e Giordania, dove “per lo meno si parla arabo.”
A quel punto gli iracheni cristiani non hanno scelta. Sebbene il governo turco non applichi la regola per il rimpatrio per chi è sprovvisto di documenti, rimanere in una condizione di illegalità non è prudente. Ed allora interviene la chiesa che dirige un ufficio apposito dove i profughi vengono aiutati a compilare i moduli che serviranno loro a registrarsi come rifugiati. Tutto ciò che la chiesa chiede a queste persone è il certificato di battesimo comprovante che esso sia stato impartito in Iraq, e non importa in quale chiesa, se cattolica o ortodossa, non è certo il caso di fare differenze. Con i moduli compilati il profugo si reca per prima cosa presso il Ministero dell’Interno per registrarsi come rifugiato, e poi presso gli uffici dell’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite che cercherà, compatibilmente con la disponibilità di posti all’interno delle quote di rifugiati iracheni che ogni paese stabilisce di accogliere, di ricollocare queste persone in un paese terzo.
In quel preciso momento inizia per il neo rifugiato il periodo più lungo: l’attesa del visto che, comunque, non è detto che arrivi. “C’è un giovane che ha 24, no, forse 25 anni” ha raccontato Padre Amer, “e che a Mosul era una delle guardie dell’Arcidiocesi. Lo conosco personalmente e so che era stato picchiato e minacciato molte volte. Arrivato in Turchia si era appellato a varie ambasciate, americana, australiana, canadese, ma non c’è stato niente da fare, nessuno gli ha creduto e non ha avuto il visto. A volte non lo danno neanche a chi può dimostrare di essere stato rapito, a volte perché se il certificato di battesimo è stato redatto, ad esempio, a Zakho, una città al confine nord tra Iraq e Turchia, si considera quella zona come tranquilla. A volte basta essersi contraddetti nel rispondere anche da una sola domanda nei diversi colloqui per vedere svanire la speranza di una nuova vita.”
L’attesa dei rifugiati in Turchia è penosa. Il governo turco non concede loro praticamente nulla ed a volte, in accordo con l’UNHCR, sposta alcune famiglie anche in piccoli centri lontani da Istanbul dove le loro condizioni sono stabilite dai regolamenti cittadini, magari anche a loro favore come nei casi – pochi comunque – in cui viene pagato per loro la metà dell’affitto della casa. Un vantaggio che però non compensa l’isolamento di quelle famiglie che non possono più neanche contare sulla rete di rifugiati connazionali e correligionari. E che non possono ottenere, ma questo riguarda anche e soprattutto quelli che vivono ad Istanbul, un permesso di lavoro e di conseguenza sono costretti a rivolgersi al lavoro nero, fatto di sfruttamento e paghe che, se e quando vengono riconosciute, sono misere. Non c’è assistenza sanitaria per i rifugiati che sono costretti a pagare tutto, anche gli eventuali ricoveri di urgenza e solo le vaccinazioni per i bambini sono gratuite. E’ sempre Padre Amer che racconta: “Una donna è stata male, molto male, ed il marito è stato costretto a portarla in ospedale dove però qualche giorno dopo la moglie è morta. Per restituire la salma l’ospedale ha chiesto il pagamento dei giorni di ricovero: 20.000 $. Una cifra impossibile che dopo varie pressioni è stata ridotta a 15.000 $ che sono stati pagati con una colletta tra la comunità in Turchia ed all’estero. Solo allora la salma è stata restituita per il funerale e la tumulazione in terra turca. I rifugiati non hanno i soldi per vivere, figuriamoci per poter fare rimpatriare un defunto. E’ così triste.”
I soldi. Ecco il problema di queste persone. Quelli, pochi o tanti, portati da casa, si esauriscono in fretta ed ecco che i soli aiuti vengono dalle ONG che operano nel paese e la cui coperta è, come sempre, troppo corta da coprire tutti, e, per chi li ha, dai parenti già emigrati in altri paesi che fanno quello che possono, quando possono: “Una famiglia riceveva ogni mese 200$ dalla sorella della moglie che aveva sposato un cittadino americano e viveva negli Stati Uniti. Con quei soldi non poteva fare molto ma certo era meglio di niente. Poi però la donna in America ha divorziato ed anche a lei è stato revocato il permesso di soggiorno con l’accusa di aver contratto un matrimonio fasullo per avere la cittadinanza. E così quei 200 $ non sono più arrivati.”
Soldi per mangiare, per vestirsi, per pagarsi le medicine, per la scuola. Già, la scuola. Non c’è neanche diritto alla scuola in Turchia per i piccoli iracheni rifugiati. Un diritto mancato che fa soffrire i genitori che sanno che il futuro dei loro figli, lì o altrove, è legato agli studi, e che temono che le lunghe ore che i bambini passano in strada a giocare possano trasformarsi in potenziali pericoli.
“L’unica possibilità di studiare” spiega Padre Amer, “è una piccola scuola della Caritas nel quartiere di Kurtuluş dove vive la maggior parte degli iracheni e che è affidata a Padre Rodolfo Antoniazzi, un salesiano. Lì ai bambini viene impartito un insegnamento elementare, ma non delle materie scientifiche, ed un’infarinatura di inglese visto che quella sarà la lingua che potranno usare in qualsiasi parte del mondo. Inglese che viene insegnato anche agli adulti per la stessa ragione. I problemi però non mancano ed oltre a quello del personale poco qualificato all’insegnamento primario sono legati soprattutto all’igiene delle classi e dei bagni ed all’acqua che bevono. La scuola infatti non fornisce acqua in bottiglia anche se quella dei rubinetti è stata ufficialmente dichiarata non potabile dal governo e così molti bambini si ammalano.”

Se solo chi legge avesse potuto ascoltare le parole ed incrociare lo sguardo di Padre Amer mentre mi raccontava ciò che aveva visto ad Istanbul avrebbe capito che la condizione di quei rifugiati è penosa più di quanto qualsiasi descrizione possa rendere percepibile.
Padre Amer, ho chiesto, che speranze hanno queste persone? Cosa sognano?
Con nessuna esitazione la risposta è stata: “L’estero. Sognano di emigrare, di lasciare la Turchia, di ricominciare dal nulla in un paese, in un qualsiasi paese, che voglia dare loro una possibilità. Sono brave persone che non meritano ciò che sta succedendo loro. E’ ovvio che nessuno di loro ha dimenticato la patria, che in un piccolo angolo del loro cuore la vera speranza è quella di tornare a vivere da iracheni in Iraq, ma per ora quelli che tornano lo fanno solo perché non hanno più soldi per vivere in Turchia, specialmente se non sono stati inseriti nelle liste dell’UNHCR.”
E Lei, Padre Amer, cosa spera per loro?
“Che l’Europa apra loro le porte e li accolga perché lo meritano.”