Pagine

10 aprile 2008

Riportare la pace in Iraq, impegno primario dell’ONU. Intervista con Staffan de Mistura


Nel panorama internazionale, l’Iraq rimane una delle principali emergenze politiche ed umanitarie, per la soluzione della quale urge un'azione immediata e ad ampio raggio delle istituzioni mondiali. Mentre la cronaca dal Paese del Golfo giornalmente offre notizie di scontri, violenze e vittime, l’ONU ripropone la sua presenza a Baghdad, affinché la sicurezza, la vivibilità e la pace tornino per tutte le realtà sociali e religiose del Paese.
Giancarlo La Vella ne ha parlato con Staffan de Mistura, rappresentante delle Nazioni Unite in Iraq:

E’ una situazione in cui ci sono ombre e luci. Le ombre sono chiaramente gli atti di violenza. Non dimentichiamo quello che è avvenuto al vescovo di Mossul, l’uccisione del sacerdote a Baghdad, quello che sta avvenendo a Bassora e a Sadr City; ma ci sono anche delle luci. Gli iracheni sono stanchi della violenza, l’economia sta migliorando e ci sono vaste zone nel Nord e altrove dove la vita, se non torna normale, comunque è molto migliorata. E c’è una volontà di prendere il futuro nelle loro mani, in poche parole: partecipare alle elezioni, partecipare alla vita quotidiana migliorata. La gente sta chiedendo servizi, acqua, luce; non vuole più vedere solo un dibattito violento.
Ecco: a fronte di un possibile disimpegno americano, sia pure in un futuro non ancora prossimo, si sta pensando ad un’assunzione di responsabilità dell’ONU in Iraq?
Sta già avvenendo! Con la risoluzione 1770, sulla base della quale il segretario generale Ban Ki-moon mi ha inviato in Iraq, l’ONU ha vaste responsabilità. Un esempio: siamo coinvolti in prima persona nell’assistere gli iracheni affinché ci siano queste elezioni che dovrebbero dare una voce a chi non ha una voce e che quindi non debba tornare ad essere violento per strada e perché la sua voce sia ascoltata. Due: la questione Kirkuk e dei territori contesi, che sono potenzialmente esplosivi. Tre: la questione dei diritti umani e dell’aiuto umanitario. In tutto questo, l’ONU è in prima linea.
Ogni situazione di crisi genera quasi sempre un’emergenza umanitaria. L’Iraq è un Paese dal quale si fugge, un aspetto – questo – che riguarda soprattutto la minoranza cristiana. Che cosa si può fare?
Sono 4,2 milioni tra rifugiati e sfollati, oggi, in Iraq. La maggior parte di loro sono sunniti, ci sono anche sciiti e la comunità cristiana. Sono fuggiti durante il periodo peggiore della violenza, che era quello dopo la distruzione della moschea di Samarra. Quello che si può e si deve fare è che ci sia prima di tutto stabilità e sicurezza. La gente – i cristiani – hanno bisogno di sapere che, dove stanno, possono continuare a vivere. Quello che si può fare, dunque, da parte nostra è insistere affinché il governo faccia il proprio dovere, quello di proteggere non soltanto in generale la comunità, ma le comunità e le minoranze. I cristiani sono una componente importante, rispettata, che ha dato molto – professionalmente – agli iracheni e che ha l’intenzione di rimanere in Iraq, ma hanno bisogno di sicurezza. Proprio in questi giorni sono stato nel Nord dell’Iraq: non ho sentito nessuno dei cristiani che mi dicesse: vogliamo andar via. Mi hanno detto: “Amiamo questa terra, siamo parte di questa terra, ma abbiamo bisogno di sicurezza”.
Quando lei ha assunto questo in carico, che cosa ha pensato di questa sfida così importante, di portare la pace in questo Paese così martoriato?
Non è stata una decisione facile! Ma non potevo dire di no. Per tre motivi: il primo è che il segretario generale, Ban Ki-moon, insisteva che ci fosse una missione con persone esperte dell’Iraq affinché l’ONU avesse e potesse avere l’occasione di dimostrare la propria utilità in un momento cruciale. Due: perché questo è un momento cruciale. Il 2008 è l’anno della verità, in Iraq, nel quale gli iracheni avranno la possibilità, ma anche la responsabilità, del proprio futuro. E tre perché lo debbo a degli amici, dei miei colleghi, che sono morti in Iraq: Sergio Vera De Mello ed altri. I quali non devono essere morti invano.