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8 aprile 2008

Nel segno dei martiri. Padre Philip Najim dopo l’uccisione di Padre Youssef Adel

Fonte: SIR

Di Daniele Rocchi

“Con lui hanno voluto colpire il suo impegno per il dialogo, la tolleranza e la riconciliazione che sono i valori di cui oggi l’Iraq ha grande bisogno. La tattica è quella di dividere la società e il popolo iracheno. Io stesso ho studiato in scuole gestite da suore caldee dove la maggior parte degli studenti è di religione musulmana. Le scuole sono aperte a tutti proprio per dare un servizio al Paese. Non c’è nessuna distinzione tra cristiani, cattolici, musulmani sciiti o sunniti. Anzi, quando c’è l’ora di religione, gli studenti cristiani e quelli musulmani hanno i rispettivi insegnanti. Un esempio di solida convivenza che oggi tali atti criminali vogliono distruggere. Padre Adel ha pagato con la vita questo suo impegno. Il fondamentalismo non vuole il bene dell’Iraq. Non è questa la democrazia che sogna il popolo iracheno”.

Il procuratore caldeo presso la Santa Sede, padre Philip Najim, così ricorda il sacerdote siro-ortodosso, Youssef Adel, ucciso lo scorso 5 aprile a Baghdad. Padre Adel, direttore di una scuola frequentata da studenti cristiani e musulmani, è il secondo sacerdote siro-ortodosso ucciso in Iraq. Il 9 ottobre 2006 fu rapito e trovato morto due giorni dopo, padre Paul Iskandar della chiesa di Mar Efrem di Mosul.

Padre Najim, ancora i cristiani bersagli di una violenza che non conosce limiti... “Le chiese cristiane non sono mai state unite come adesso e lo sono nel segno dei loro martiri. Ma da sempre tra armeni, siro-ortodossi, siro-cattolici, caldei non si è mai fatta distinzione. I fedeli di ogni denominazione si recano nelle chiese loro più vicine, non importa se cattoliche o ortodosse. Si vive un ecumenismo naturale dimostrato anche dall’alto numero di matrimoni misti. La religione non è mai stata un mezzo di divisione ma di unità molto forte. L’azione degli integralisti vuole sradicare questa cultura di tolleranza. Ci sono forze oscure che puntano alla divisione etnica dell’Iraq, non ci deve essere secondo loro un solo popolo, ma zone sunnite, sciite, curde e così via con nessuno spazio per i cristiani. Una cosa che preoccupa anche la Siria, l’Iran e l’Arabia che, come ho letto dai giornali arabi, in questi giorni hanno chiuso i loro confini per evitare l’infiltrazione dei terroristi e degli estremisti nel loro territorio”.
Perché puntare alla divisione etnico-religiosa dell’Iraq?
“La questione dell’Iraq oggi è chiara: terroristi e integralisti non vogliono l’unità perché questa significherebbe dire anche pace, stabilità e ricostruzione. Quando si vive nel caos come adesso non c’è tempo per costruire un futuro per i giovani, elaborare una politica che guardi al bene del popolo e alla sua dignità, creando lavoro, servizi e infrastrutture. Oggi l’Iraq è staccato dalla comunità internazionale, il suo popolo è isolato. La risposta più forte alla violenza settaria ed estremista è unità e questo è possibile solo se il popolo si ritrova intorno a valori come la riconciliazione”.
In questo quadro qual è il ruolo delle istituzioni politiche irachene e delle truppe di coalizione?
“Il Governo non può fare nulla perché è debole, non riesce a garantire sicurezza e rispetto della dignità umana. Ogni giorno vengono uccise molte persone e di queste non si conoscerà mai il nome degli assassini e il movente. Più o meno come sta accadendo per mons. Rahho, l’arcivescovo di Mosul. Non si può dire, come è stato detto, che i rapitori di mons. Rahho sono stati catturati e dopo settimane non si sa ancora nulla delle indagini. Il governo deve dare risposte alla comunità internazionale, al popolo iracheno e alla Chiesa caldea, è una questione di credibilità”.
E le truppe di coalizione?
“Gli Usa e le truppe della coalizione non mostrano di avere nessuna strategia per il futuro di questo Paese ed è anche per questo che gli iracheni stanno emigrando. Non vedono un progetto per il futuro. Mancano scuole, strade, ospedali, servizi, infrastrutture, sicurezza. Mi chiedo dove sono i soldi del petrolio che entrano in Iraq, come vengono gestiti gli introiti. Il popolo ha diritto di sapere. Qui in Italia, poi, non ho sentito nessun candidato premier alle elezioni parlare di Iraq”.
C’è qualcosa che potrebbe fare anche la Chiesa per non far dimenticare l’Iraq?
“I cristiani stanno morendo, padre Adel e mons. Rahho non sono le ultime vittime. Pochi giorni fa a Baghdad sono stati uccisi dei ragazzi cristiani. Un’idea potrebbe essere creare una delegazione, composta dai cristiani iracheni di varie denominazioni rafforzata dalla presenza di migranti in Europa e Usa per sensibilizzare i Paesi che hanno in mano le sorti del nostro Iraq. È urgente far conoscere alla comunità internazionale quello che succede in Iraq ogni giorno contro la democrazia e contro l’uomo”.