Pagine

15 aprile 2008

IRAQ - La forza della minoranza. Il ruolo della Chiesa nell’Iraq di oggi

Fonte: SIR

Di Daniele Rocchi

Uccisi, perseguitati, costretti a fuggire o ad emigrare, con i loro sacerdoti e vescovi rapiti e messi a morte: resta grave la situazione dei cristiani in Iraq. Un mese dopo (13 marzo) il ritrovamento del corpo dell’arcivescovo di Mossul, mons. Paulos Faraj Rahho, non si hanno ancora notizie sulle indagini che dovrebbero assicurare alla giustizia esecutori del delitto ed eventuali mandanti. Nonostante ciò la Chiesa irachena continua la sua missione facendosi sempre più apprezzare dai musulmani, quelli distanti dai terroristi e dai fondamentalisti, per i continui appelli alla riconciliazione e al dialogo. Nel momento della sua massima debolezza la Chiesa sta mostrando una forza nascosta, che la tiene legata disperatamente alla sua terra che abita dalle origini e dalla quale non vuole staccarsi, la forza del dialogo a tutti i costi. Ne abbiamo parlato con don Renato Sacco di Pax Christi Italia, conoscitore dell’Iraq dove è stato meno di due mesi fa per una visita di solidarietà con una delegazione italo-francese del movimento di cui fa parte.
Poco più di un mese fa veniva ritrovato morto mons. Rahho, ma sulla vicenda sembra calato un velo di silenzio. Perché?
“Sulle indagini su mons. Rahho c’è silenzio. Da Mossul giungono voci di una situazione drammatica. Non si sa a che punto siano le indagini, se hanno arrestato qualcuno o se è un modo per calmare la richiesta di verità. Ma questo silenzio sull’assassinio di mons. Rahho riflette anche quello che si registra per l’Iraq. In generale si avverte sul Paese un silenzio strano eppure ci sono oltre 4 milioni e mezzo di profughi iracheni, un numero enorme. Un terzo della popolazione è a rischio di vita per mancanza di acqua, medicinali e cibo, e cosa grave, non vedo un particolare interesse dell’informazione su questi temi. Dobbiamo invece informare e lavorare per la verità, per la giustizia e per non lasciare soli gli iracheni”.
Giudica insufficiente l’informazione che si dà sull’Iraq?
“Ci sono grosse tensioni in tutto il Paese e quello che si legge sono solo alcune notizie slegate e frammentate. Si parla di miglioramenti nella sicurezza nel Paese ma non sappiamo se sia veramente così. Non leggo riflessioni o analisi organiche sulla situazione in Iraq che diano un quadro di ciò che accade e che dicano veramente come si vive oggi in questo Paese. La rivolta di Bassora non è stata quella di uno sparuto gruppo di insorgenti ma qualcosa che vede l’Iran coinvolto. Nonostante l’eco della morte di mons. Rahho, vedo silenzio sia dal Governo iracheno che dalla comunità internazionale. Tante cose non trapelano, come per esempio, il recente ritrovamento in un deposito di armi della guerriglia di 20mila pistole di fabbricazione italiana. Chi l’ha vendute? Nessuno parla di disarmo. Io non ho sentito parlare di Iraq nell’ultima campagna elettorale”.
Cosa ha lasciato la morte di mons. Rahho e quali conseguenze sta avendo nella vita della Chiesa irachena?
“I giorni del rapimento dell’arcivescovo hanno rivelato l’amicizia e la vicinanza di tanti musulmani che chiedono e cercano il dialogo. Molti leader islamici di Mossul, e non solo, hanno espresso ferma condanna del rapimento. La morte di mons. Rahho ha ampliato lo spazio nel quale costruire una rete di dialogo che parte dal basso e questo processo continua anche se con la fatica e la paura di molti fedeli. Con il dialogo si possono creare i presupposti anche per accordi di natura politica che diano all’Iraq un futuro vero”.
Allo stato attuale dei fatti, con quale forza la Chiesa potrebbe intessere questa rete di dialogo e di incontro?
“Con la forza tipica di chi è minoranza. In particolare, la Chiesa in Iraq non è vista come parte politica in causa”.
Ci fa capire meglio...
“La Chiesa non ha truppe, non ha armi, non ha milizie; non rappresenta una preoccupazione per un eventuale, futuribile, stato sciita, sunnita o curdo, ed essendo fuori da questa logica di spartizione del potere può giocare un grande ruolo nel costruire ponti e far incontrare chi non riesce a dialogare. La Chiesa non sposa la causa di nessuna fazione perché così facendo perderebbe il suo ruolo di mediazione. Per questo chiede di essere sostenuta a restare in Iraq, per contribuire al futuro del Paese. E adesso avrebbe questa possibilità. A sostenerlo sono molti leader islamici che ho incontrato nel mio recente viaggio: la Chiesa può inventare modi di incontro e di dialogo nuovi. Gli iracheni non ce la fanno più stanno soffrendo da molto tempo, hanno fame di dialogo e di pace”.