Pagine

31 marzo 2008

L’amore può annullare le differenze. Anche a Baghdad

By Baghdadhope

Mercoledì pomeriggio, 26 marzo 2008. Un razzo Katiusha cade su una casa di Baghdad. Fortunatamente non ci sono vittime ma solo molti danni materiali.
Quante sono le case che in questi anni a Baghdad sono state colpite? Nessuno le ha contate e nessuno lo farà. La notizia, quindi, non avrebbe niente di speciale. Solo una tra le tante. Eppure speciale lo è. Perché ad essere stata colpita non è una casa qualunque o un edificio governativo, un covo di terroristi o la base di una milizia. E’ “Casa Beyt ‘Ania”.

Nella Baghdad degli orrori quotidiani e delle fazioni in lotta è stata colpito uno dei pochi luoghi dove c’è posto per una sola cosa: l’amore. L’amore verso il prossimo che non conosce differenze se non quella che rende tutti coloro che vi abitano “speciali”.
La prima volta che ho visitato Beyt Ania è stato grazie ad un sacerdote di Baghdad che ogni tanto vi celebrava una messa nella piccola cappella ricavata in una delle stanze. Ricordo un cancello di ferro con il nome Beit ‘Ania scritto in arabo con vernice rossa, la volontaria che ci venne ad aprire dopo essersi assicurata della nostra identità, il piccolo giardino, alcune sedie di legno davanti la statua della Vergine, l’odore.
L’odore penetrante, terribile, acre della malattia e del dolore che però svanì dal mio olfatto nel momento in cui incontrai le prime ospiti di Beit ‘Ania, tre donne che ai piedi di una scala giocavano a carte e che mi accolsero con un sonoro “Good afternoon,” tre delle dieci donne che all’epoca vi erano ospitate.
Dieci donne che le infermità, o anche solo gli acciacchi della vecchiaia, avevano reso un peso per le famiglie piagate dalla povertà materiale e morale che l’embargo ancora imponeva al paese, e che come mi disse una di loro “erano rinate il giorno in cui erano entrate a far parte della famiglia di Beyt Ania.”
Beyt Ania è una casa di assistenza per disabili e persone senza famiglia nata nel 2000 per la ferrea volontà della sua direttrice, Alhan, una giovane ragazza cristiana che decise di dedicare la sua vita a Dio attraverso la cura dei più sfortunati. “Il nostro interesse è rivolto all’Uomo e la sua dignità, senza riguardo alla sua situazione, alla sua nazionalità ed alla sua religione.” Ecco il motto che ha guidato in questi anni fatti di embargo e poi di guerra coloro che hanno seguito Alhan nella sua missione e che sono diventati sempre di più. In realtà la storia di Beyt Ania cominciò nel 1994 quando Alhan decise di dare conforto morale ai malati negli ospedali e nelle case. Ad ella si unirono altri giovani, e quell’esperienza rivelò loro una realtà fatta non solo di malattia ma anche, e soprattutto, di abbandono. Presto essi si resero conto della necessità di dare una risposta concreta al problema e iniziarono così a cercare una sistemazione per quei loro sfortunati fratelli. “Con l’aiuto di Dio” come mi raccontò Alhan durante quella prima visita, e più materialmente con quello di Mr. Karim Al Rayyes, un benefattore che si accollò la spesa dell’affitto di una casa, e con quello dei volontari che lavorarono alla sua ristrutturazione, il primo maggio del 2000, alla presenza di Monsignor Matti Shaba Mattoka, vescovo siro cattolico di Baghdad, dell’allora nunzio apostolico in Iraq, Monsignor Giuseppe Lazzarotto, di sacerdoti, suore ed amici laici, “Casa Beyt Ania” accolse le sue prime quattro ospiti. Ma la Divina Provvidenza guardava con benevolenza all’iniziativa e nell’autunno di quello stesso anno la famiglia di Mr. Michael Lazare che viveva ormai all’estero da tempo concesse ai “Servi di Anya” l’usufrutto a titolo gratuito del pianterreno della loro casa nel quartiere di Karrada Al Sharqiya che con una cerimonia ufficiale diventò la sede definitiva il primo maggio del 2001. La terribile situazione in cui l’Iraq già versava a causa dell’embargo presto rese la casa l’unica ed ultima risorsa per chi non sembrava avere più speranza. Così le ospiti, dapprima solo donne, aumentarono, ma fu presto chiaro che l’abbandono riguardava anche gli uomini. Fu così che dopo aver ottenuto il permesso dai proprietari della casa nel 2003 fu costruita in giardino una seconda, piccola, unità abitativa. Nonostante ciò però i locali presto si rivelarono insufficienti e fu deciso quindi di prendere in affitto un’altra casa nello stesso quartiere per ospitare le pazienti più anziane. Questa nuova sede, inaugurata nel novembre del 2006 fu però sostituita, per il non rinnovo della locazione, da quella tuttora operante dall’ottobre dello scorso anno.
Attualmente Casa Beyt Anya è costituita quindi da un corpo centrale che può ospitare 34 donne a fronte di 30 presenze, da un corpo distaccato destinato ad ospitare 5 uomini ed attualmente interamente occupato, e dalla sede distaccata che, a fronte di una capacità di 25 posti, ospita 23 pazienti anziane. In questi anni, nonostante i pericoli e le sofferenze che l’embargo e la guerra hanno aggiunto a quelli di curare coloro di cui né la società né le famiglie possono farsi carico, i “Servi di Anya” hanno pensato non solo alle cure mediche dei propri “ospiti” come chiamano i membri di questa nuova loro famiglia, ma anche a quelle dello spirito. Nella casa esiste ancora quindi la piccola cappella a cui è stata aggiunta una stanza per piccoli attività manuali ed una per il computer. Le ospiti che sono in grado di farlo impiegano il loro tempo in diverse attività che, è questa la convinzione che muove chi le stimola a farlo, servono loro a riconoscere il proprio valore e l’importanza dell’integrazione della propria vita con quelle delle altre. Così ad esempio una di esse ha tradotto dall’inglese delle brevi storie di argomento religioso che sono state pubblicate per poter essere usate come testo di catechismo, un’altra cuce o rammenda i vestiti, un’altra dà una mano in cucina, un’altra assiste un’ospite più sfortunata di lei.
Così sia gli ospiti della casa, sia i malati che i “Servi di Ania” assistono a domicilio, vengono coinvolti in incontri con sacerdoti e terapisti ed in conferenze culturali con relatori specialisti in diversi campi.
Così nessun compleanno viene dimenticato e tutte le feste vengono celebrate, Natale e Pasqua, ma anche, ovviamente, Eid Al Fitr, la festa che annuncia la fine del Sacro Mese di Ramadan, e Eid Al Adha, quella che celebra l’obbedienza di Abramo alla volontà divina di sacrificare il proprio figlio Ismaele (Isacco nella tradizione giudaico-cristiana).
Natale ed Aid Al Fitr? Già, mi rendo conto solo ora di non averlo scritto: gli ospiti di Beyt Ania sono cristiani e musulmani, ma soprattutto sono sorelle e fratelli tra loro nel dolore che hanno provato e nell’amore che li circonda. Non era chiaro? Non ho forse scritto che sono “speciali”? “Simile ad un granello di senape che, quando viene seminato nella terra, è il più piccolo di tutti i semi. Ma poi, quando è stato seminato, cresce e diventa la più grande di tutte le piante dell’orto, e mette dei rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra” (Marco 4:31-32)
Nella Baghdad dell’odio e della violenza si può, si “deve”, sperare che quell’albero possa ancora crescere, che la sua ombra possa allargarsi, che sempre più uccelli possano trovare riposo sui suoi rami, e che la fede all’ombra di quelle fronde non diventi mai un problema ma, come dovrebbe essere, una risorsa, una gioia.
Si può, e si “deve”, sperare che l’appello che i “Servi di Ania” lanciano attraverso le parole di Matteo trovi riposta: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!".