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26 settembre 2007

Verso la divisione? La presenza dei cristiani in un Paese che tenta di rialzarsi

Fonte: SIR

di Daniele Rocchi

"Tangibili progressi"
sul fronte della sicurezza, ma "non è abbastanza". Nel suo recente intervento al Parlamento iracheno il premier iracheno Nouri al Maliki ha così presentato la sua valutazione sulla situazione in Iraq di questi ultimi mesi. Tuttavia secondo il premier sciita "sul fronte della sicurezza c'è bisogno ancora di maggiori sforzi e tempo perché le nostre forze armate siano in grado di assumere la responsabilità della sicurezza in tutte le province irachene". A dare ragione ad al Maliki sono, purtroppo, le continue notizie di attentati e attacchi, gli ultimi a Baghdad, Bassora, e al-Shifta nei pressi di Baquba. Qui un kamikaze si è fatto esplodere durante l'iftar, il pasto che interrompe ogni giorno al tramonto il digiuno di Ramadan, organizzato per favorire la riconciliazione tra leader sciiti e sunniti. E in questo clima la popolazione continua a soffrire per mancanza di acqua, elettricità, per l'aumento dei prezzi, la disoccupazione e per i casi di colera. Ne abbiamo parlato con l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako.

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Alla luce di questi "tangibili progressi" sul piano della sicurezza, è possibile parlare di una fase, meno acuta, delle violenze settarie e terroristiche?
"È vero che c'è un miglioramento seppure limitato, ma non si può certo parlare di una fase meno acuta. La violenza è sempre forte e i conflitti settari sono gravi e continueranno. E lo stesso vale anche per i rapimenti con riscatto. È necessario, inoltre, segnalare nel nord dell'Iraq, i casi di colera la cui epidemia sembra essersi diffusa fino a Baghdad. La gente ha paura e perde fiducia. Le ferite sono profonde e a dividere la popolazione ci sono veri e propri fossati".
Iraq a rischio divisione?
"L'Iraq sta andando verso la divisione. I curdi hanno già la loro autonomia, gli sciiti si stanno organizzando e lo stesso stanno facendo i sunniti arabi. Del piano di divisione dell'Iraq si parla anche al congresso Usa".
In questa fase come vive la minoranza cristiana, subisce ancora persecuzioni, è costretta a fuggire o ad emigrare?
"I cristiani sono isolati praticamente e psicologicamente. L'emigrazione continua in maniera cieca, senza avere una visione. A Baghdad e a Mosul si registrano persecuzioni e rapimenti. I gruppi estremisti non accettano altri. A Kirkuk parecchi cristiani partono verso il nord o la Siria. Hanno paura del futuro. I partiti cristiani sono divisi fra loro e i capi religiosi aspettano un miracolo per salvaguardare i loro fedeli. Ci manca una visione obiettiva e un atteggiamento con un piano chiaro. Aumenta anche il numero dei sacerdoti che lascia il Paese per andare in Occidente".
La Chiesa ha sempre parlato di riconciliazione ma in che modo è possibile far passare un messaggio così importante in un Paese dilaniato tra scontri settari tra sciiti, sunniti, curdi, in cui proprio i cristiani sono l'anello debole?
"La Chiesa parla in modo discreto. Ma ora ci vogliono iniziative e contatti con tutti i diversi gruppi in campo. La Chiesa può giocare un ruolo di ponte e di dialogo, ma prima deve avere fiducia in sé stessa e essere cosciente di poterlo fare".
Cosa pensa della possibile decisione americana di far rientrare a metà del 2008 circa 30mila uomini dei 168mila presenti in Iraq?
"È incredibile. Penso che con tutti i sacrifici che gli americani hanno fatto, non lasceranno l'Iraq. Hanno un'agenda e piani per rimanere qui per sempre. I conflitti e le ambizioni regionali stanno peggiorando giorno dopo giorno. Come si può pensare che gli americani lascino campo libero?".
In autunno è prevista la conferenza internazionale per il Medio Oriente, fortemente voluta dall'amministrazione americana e tutta centrata sul conflitto israelo-palestinese. Crede che una soluzione stabile di questo conflitto possa aiutare anche a dirimere la crisi irachena?
"Il nodo del problema sono Israele e Palestina. Penso che sia giunto il momento di risolvere il conflitto. Le intenzioni degli Usa, questa volta, mi sembrano serie. È in gioco la credibilità americana. È una sfida da non perdere".