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5 settembre 2007

Quando anche in Iraq? Echi della festa di Loreto a Baghdad

Di Daniele Rocchi

"Ho visto le immagini dei giovani italiani, intorno al Papa, a Loreto e ho pianto a lungo. Mi sono ricordato delle volte che con padre Raghid Ganni, (il sacerdote caldeo ucciso il 3 giugno a Mosul con i suoi suddiaconi, ndr), l'ultima due anni fa, siamo stati in pellegrinaggio nella Santa Casa. Vedevo quei volti festanti e mi chiedevo: Quando anche noi faremo festa così in Iraq?".
Esordisce così mons. SHLEMON WARDUNI, vescovo caldeo ausiliare di Baghdad. Al telefono dalla capitale irachena racconta le sue emozioni davanti a quelle immagini e per un momento dimentica le gravi condizioni in cui versa la minoranza cristiana, perseguitata da integralisti e fondamentalisti islamici, e tutto l'Iraq.
Eccellenza, sapeva che a Loreto c'erano anche alcuni giovani iracheni, che facevano parte della delegazione libica?
"Davvero? Ne sono felice e cosa hanno fatto?"
Hanno fatto conoscere ai loro coetanei italiani quanto accade in Iraq e le difficoltà in cui versa la Chiesa e a causa delle quali sono stati costretti a lasciare la loro casa.
"Abbiamo bisogno di aiuto concreto e preghiera. La situazione qui è leggermente migliorata ma le violenze, le minacce, i rapimenti e le uccisioni non mancano. E queste riguardano anche noi cristiani. È quanto mai necessario dare a questo lento miglioramento continuità. Senza di questa non è possibile sperare. Non possiamo muoverci e uscire con sicurezza per cui la gente preferisce restare a casa. Abbiamo da pochi giorni riaperto il nostro asilo ma i bambini sono solo sei. Prima ne avevamo circa settanta. Molte famiglie sono emigrate in cerca di salvezza altre hanno paura a mandarli".

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Eppure Bush, in una visita lampo a Baghdad ha detto che "se i progressi nella sicurezza continueranno sarà possibile ridurre le truppe". È d'accordo?
"Ho saputo di questa visita dalla tv. Secondo me, non è importante ridurre o meno le truppe quanto porre il fondamento della pace nella nazione operando con tutte le forze. Che colpa ha commesso l'Iraq per vivere in questo inferno? Viviamo in condizioni pietose. Qui in questo periodo la temperatura arriva a toccare i 45°; come si fa a vivere senza elettricità? Chi possiede un generatore ha poi difficoltà a reperire benzina e gasolio che è aumentato in maniera spropositata. Per non parlare della divisione che c'è nel Paese".
Non è di molto tempo fa la notizia di un tentativo di riconciliazione nazionale tra sciiti, sunniti e curdi. Una cosa possibile?
"Ogni tentativo di parlare e dialogare è una pietra che si pone nell'edificio della pace, una costruzione che ha bisogno di tanti mattoni. Se mettiamo pietre di incontro, e non di inciampo, giorno dopo giorno alimenteremo la speranza in un futuro migliore. C'è bisogno di dire al Paese che le divisioni sono nefaste e non servono, che la cosa essenziale è il dialogo per avvicinare i cuori. Da questo processo di riconciliazione devono restare fuori gli interessi economici e personali di ogni parte. Serve solo il bene comune. La Chiesa irachena non farà mancare il suo apporto su questo tema decisivo".
E come?
"Va detto subito che ciò che trafigge i nostri cuori è vedere le chiese semivuote. Un tempo traboccavano di fedeli. Ma dobbiamo andare avanti per coloro che restano. I giovani si incontrano, i bambini frequentano il catechismo, anche se le lezioni sono spostate al sabato perché il venerdì c'è coprifuoco. Nelle catechesi cerchiamo di insegnare la pazienza, la tolleranza, la condivisione con i più bisognosi. Abbiamo organizzato un comitato per assistere coloro che sono stati costretti a lasciare le loro case a Dora, un tempo quartiere cristiano. Sono più di 3.000 famiglie. Di queste 1.700 hanno trovato rifugio al Nord o presso dei parenti. Dora è quasi vuota delle 5.000 famiglie cristiane che prima vi abitavano. Queste famiglie hanno bisogno di tutto, sono dovute partire solo con i sandali ai piedi. Non sappiamo cosa fare per aiutarle."