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30 maggio 2007

Fatti e non parole per gli iracheni cristiani

By Baghdadhope

A leggere le cronache degli ultimi giorni sulla tragica situazione dei cristiani risulta evidente quanto la differenza tra parole e fatti sia in Iraq più che mai grande.
Le parole sono quelle che, dopo l’accorato appello dei vertici delle chiese irachene, tutti stanno spendendo a favore dei “fratelli cristiani” che nei fatti però nessuno difende.
Non lo fa il governo, incapace di garantire la sicurezza, e che in un estremo tentativo di recuperare dignità, ed una facciata democratica di garante “anche” delle minoranze, lancia un’operazione militare congiunta con le forze americane nella zona di Dora, da più di un anno ormai diventata il cimitero della cristianità irachena, e terreno di lotta tra fazioni sunnite e sciite che ne rivendicano il possesso.
Ergere barricate, istituire posti di blocco, impedire agli abitanti rimasti di lasciare la zona o ad altri di entrarvi, imporre tre giorni di coprifuoco, e accordarsi perchè i soldati americani procedano casa per casa alla ricerca delle milizie che hanno insanguinato il quartiere in perfetta impunità per mesi, sa tanto infatti di stalla chiusa dopo la fuga dei buoi, e certamente non servirà a riportare a Dora coloro che, cristiani, ma anche musulmani, ne sono fuggiti terrorizzati.

Nè serviranno le promesse dello stesso Primo Ministro Nouri Al-Maliki che ha dichiarato di aver predisposto l’assegnazione di 100 milioni di dinari iracheni per la ricostruzione ed il restauro di edifici di culto cristiani danneggiati o distrutti. Sebbene 100 milioni di dinari iracheni corrispondano a circa 80.000 $, una cifra ragguardevole in Iraq, è chiaro come essa non sia sufficiente nè a sanare materialmente i danni nè, soprattutto, a risolvere i problemi che gli iracheni cristiani hanno. Problemi non certamente legati alla agibilità delle chiese quanto al fatto che la mancanza di sicurezza ha svuotato le stesse dai fedeli.
In un Iraq dove il caos permette che ognuno si dichiari capo di se stesso vuote suonano anche le parole dei rappresentanti delle diverse anime religiose del paese. Così la condanna epressa dal Gran Muftì sunnita Jamal Abd Al-Kareem Al-Dabban
nei confronti dello “spargimento di sangue iracheno a dispetto dell’appartenenza religiosa e del credo” e la sua preoccupazione per la sorte dei “fratelli cristiani” non hanno avuto alcun effetto ad esempio sull’imam sunnita della moschea An-Noor a Dora, nominato “principe” della zona dall’organizzazione armata Stato Islamico in Iraq, che pretende dalle famiglie cristiane il pagamento della “jizya” la tassa di protezione o, in alternativa, la loro conversione all’Islam o l’allontanamento “volontario” dal quartiere.
Da parte sciita poi a pronunciarsi contro le violenze sui cristiani è stato addirittura Moqtada As-Sadr che, come ha riferito la televisione iraniana Alalam, tornato alle scene dopo mesi di silenzio venerdì 25 maggio a Kufa, ha chiesto un calendario per il ritiro delle truppe straniere in Iraq, ha appoggiato un’apertura verso i “fratelli sunniti” con i quali cooperare, ed ha promesso di proteggere loro, ma anche le minoranze cristiane, dalle fazioni sunnite violente e da Al-Qaeda, perchè “uccidere sunniti e cristiani è un peccato ed obbligare questi ultimi alla conversione all’Islam è spregevole.”
Come voglia Moqtada As-Sadr tradurre in pratica queste parole non è ancora chiaro. Affidando la “protezione” dei cristiani all’Esercito del Mahdi, la sua milizia? Se così fosse bisognerebbe chiedersi quale sarebbe il prezzo da pagare per i cristiani. Proprio oggi, infatti, l’agenzia AINA pubblica, in arabo ed in inglese, il testo di una lettera senza data firmata dall’Esercito del Mahdi ed indirizzata alle famiglie cristiane di Baghdad. In essa, appellandosi alla Vergine Maria, si ordina alle donne cristiane di seguirne l’esempio e di velarsi il capo, un’usanza che le irachene cristiane hanno sempre seguito, ma solo all’interno degli edifici di culto per rispetto della sacralità del luogo, ma che ormai è diventata per loro un modo per cercare di passare inosservate nel mare nero di donne islamiche. La mancanza di data della lettera può fare sperare che essa sia antecedente ai buoni propositi di Moqtada As-Sadr, se così non fosse, però, il comandante in capo dell’Esercito del Mahdi dovrebbe capire, e con lui tutti gli altri, che gli iracheni cristiani non devono essre “protetti” ma “rispettati.” Se è chiaro a tutti ormai che sperare in una democrazia irachena sia un’utopia, il pensiero di uno stato civile non ha ancora abbandonato del tutto chi ama, o dice di amare l’Iraq, ma non c’è civiltà se non nel rispetto di “tutte” le componenti della società, senza pregiudizi etnici e religiosi, e nella salvaguardia di tutte le tradizioni purchè non contrarie al diritto umano, ed un capo femminile scoperto certamente non lo è.
Tra tante parole e pochi fatti intanto gli iracheni cristiani continuano a soffrire, ed in questo tragico scenario si dovrebbe tenere nel prossimo futuro un sinodo della Chiesa Caldea dove certamente le questioni liturgiche lasceranno il passo a quelle più scottanti di una realtà sempre più insostenibile.