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24 aprile 2007

Tra i profughi iracheni a Damasco per fuggire dall’incubo iracheno

Fonte: 30 giorni

REPORTAGE DALLA SIRIA

Un milione di iracheni in fuga dal loro Paese hanno trovato rifugio nelle periferie della capitale siriana. Storie e immagini di un esodo nascosto che coinvolge decine di migliaia di cristiani. E accelera l’estinzione del cristianesimo nella terra da dove partì Abramo.

Reportage
di Gianni Valente

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Rita canta nel coro. Alle otto e mezza di mattina sale coi suoi anziani genitori sul pulmino che dal quartiere di Giaramana porta alla città vecchia. La madre, al suo fianco, si fa il segno della croce ogni volta che il trabiccolo sgangherato passa davanti a una chiesa: quella della Custodia francescana, a Tabbaleh, poi quella ortodossa, poi quella armena che si intravvede oltre le mura vicino a Bab ash-Sharqi, la porta dell’est. Scendono nella piazzetta di Bab Touma, e nella calma festiva del venerdì musulmano i loro passi veloci risuonano nel labirinto dei vicoli insieme a quelli di tutti gli altri – uomini, donne, intere famiglie, anziani soli – che si avviano come loro verso la parrocchia di Santa Teresina, dove già rintocca la campana della messa. Le moschee sparse per i suq e quella grande degli Omayyadi si riempiranno di uomini, donne velate e preghiere solo tra un paio d’ore. Qui le panche invece sono già piene, e i vecchi hanno cominciato a cantilenare le malinconiche litanie in lingua caldea. Iracheni di Baghdad e di Mossul, di Kirkuk e di Bassora, ricordano oggi i loro defunti. Lo fanno qui a Damasco, lontano dalla loro terra. Lontano da case e strade che probabilmente non vedranno più. Nel coro c’è anche Wissam, che a messa suona il violino. Lui volevano ammazzarlo solo perché è alto, ha la carnagione chiara e può sembrare un americano. Anche Malad, suonatore di liuto che adesso sbarca il lunario piazzando qua e là lezioni di musica, erano andati a cercarlo per rapirlo e chiedere il riscatto. Sono scappati con quello che avevano addosso, insieme ai genitori e alle loro tante sorelle (ne hanno cinque ciascuno), e si considerano fortunati. Quando alla fine della messa si legge la preghiera per i defunti, la chiesa crepita di singhiozzi trattenuti. Ognuno ha qualche lutto recente, qualche caro perduto da poco nel mattatoio iracheno di bombe, attentati, sparizioni. Fuori della chiesa uomini e donne si accalcano a leggere la lista delle famiglie che questa settimana possono ritirare la razione di zucchero e olio. La sacrestia è diventata un magazzino di primo soccorso per gli sfollati in fuga dal nuovo Iraq “democratico”. Latte in polvere e rosari, bombole del gas e santini di Maria, coperte e candele per i santi. «Questo è un buon tempo per assaporare la consolazione che ci dona Gesù Cristo, noi che non abbiamo più niente, e a Dio possiamo offrire solo il nostro cuore. Venga il Tuo Regno, e dacci oggi il nostro pane quotidiano», ha predicato padre Yussif dal pulpito, gli occhi spiritati di stanchezza, lui che è scappato come tutti gli altri quando gli hanno detto che il suo nome era sulla lista dei condannati a morte. Sul sagrato, distribuiscono dolci e pizzette a chi esce. Giorgio racconta come sono le guerre per esportare la democrazia viste dal basso: «Non saprei dire nulla di alta politica. Saddam era certo una persona cattiva. Ma adesso noi tutti sappiamo che c’era qualcosa di peggio».

Amici fragili

Anche la fuga degli iracheni verso la Siria rappresenta con le sue anomalie un indizio della catastrofe innescata dalla “guerra dei volenterosi”. Spiega l’olandese Laurens Jolles, rappresentante del Commissariato Onu per i rifugiati a Damasco: «Quando è caduto il regime, tutti si aspettavano un flusso di profughi improvviso e massiccio, come quelli scatenati dalle guerre africane. Ci eravamo preparati. C’erano fondi, strutture, donatori e Ong in allerta. Ma non arrivò quasi nessuno. Solo piccoli gruppi, in parte legati ai vecchi apparati, che temevano la rappresaglia e comunque avevano avuto il tempo di trasferire all’estero le proprie risorse». Negli ultimi due anni e mezzo, quando l’allerta internazionale era ormai in ribasso, il rigagnolo proveniente dall’Iraq “liberato” si è trasformato in un fiume in piena di poveri cristi, con un’escalation impressionante che mette a dura prova la stabilità sociale dello Stato ospitante. «Ne arrivano 30-40mila a settimana» conferma Jolles. Gente di tutti i gruppi etnici e religiosi e di tutte le classi, «ma anche quelli che lì erano benestanti ormai arrivano qui senza niente. Incrociando vari dati, si calcola che ormai solo qui in Siria siano almeno un milione, ma secondo il governo sarebbero molti di più». Un esodo biblico in sordina, che non inonda campi profughi ma si disperde in mille rivoli anonimi negli slums e nelle periferie caotiche di Damasco. Gente diversa che fugge dalle stesse bombe stragiste, da un mondo impazzito di squadre della morte, rapimenti, sevizie. Un orrore quotidiano che travolge tutti, ma che i cristiani sentono di pagare con moneta particolare.

A Giaramana, il piccolo ufficio della Caritas zeppo di vassoi pieni di schede e foto dà l’impressione di una generosa scialuppa di arditi travolti da una tempesta più grande di loro. Suor Antoinette sintetizza la condizione dei cristiani in fuga dall’Iraq con un’immagine forte ma efficace: «Lì adesso i sunniti rapiscono e ammazzano solo gli sciiti, mentre gli sciiti rapiscono e ammazzano solo i sunniti. Ma sia gli sciiti che i sunniti rapiscono e ammazzano i cristiani». Nella dilaniante guerra tribale scatenata in Iraq dall’intervento occidentale loro sentono di essere i bersagli più inermi, le vittime predestinate. Persone, case e cose alla mercé della barbarie. Senza quartieri-roccaforte per resistere, senza milizie e clan tribali potenti a cui chiedere protezione.

Nel quartiere di Massaken Barzi, nella palazzina riadattata a chiesa e dedicata a sant’Abramo di Ur dei Caldei, padre di tutti i credenti, la tragedia collettiva si frammenta nei racconti di fuga di ciascuno. C’è Jalal, che a nord di Baghdad lavorava in un centro sportivo e ha dovuto vendere casa e auto per pagare il riscatto ai rapitori di sua figlia. C’è il piccolo Martin, che per due anni ha perso la parola dopo che lo avevano seviziato per registrare le sue grida sull’audiocassetta da mandare al padre. C’è Nader, un omone che lavorava con le compagnie petrolifere, rapito anche lui e rilasciato solo dopo aver sborsato 20mila dollari. «A qualcuno dei nostri vicini devono aver fatto gola i nostri soldi. Rapiscono i cristiani perché sanno che molti di noi hanno parenti all’estero pronti a pagare i riscatti». Ma a scatenare invidie e odi criminali non è solo l’esposizione sociale. Il marito di Sherma, vedova trentenne, lo hanno ammazzato perché lavorava come interprete per le compagnie americane. E la matrice religiosa degli invasori ha fornito facili pretesti alla brutalità fanatica degli islamisti. «Dicevano che eravamo i servi dei crociati, imponevano alle mie figlie di indossare il velo, ci mandavano lettere di minaccia: o ve ne andate o vi sgozziamo», racconta Alisha. Dicono che negli ultimi mesi il picco di nuove violenze si è avuto dopo il discorso di Ratisbona: «Ci minacciavano: nessuno entrerà in chiesa finché il Papa non chiede perdono ai musulmani. E dicevano che per noi lì era finita: andate via, chiedete asilo al vostro Papa». Voci riportate di bocca in bocca raccontano di alcuni preti e diversi giovani cristiani ammazzati in rappresaglia dopo Regensburg. Michel, tassista scappato da Mossul, non teme di mostrarsi davanti a tutti come un nostalgico: «Credimi, amico: prima della guerra vivevamo in pace. Si lavorava, si tornava a casa tranquilli». Nessuno solleva obiezioni. Quasi tutti gli danno ragione. «Perché ogni guerra fomentata da queste parti è sempre una guerra contro i cristiani, sono sempre loro i primi a pagare», scandisce amaro e realista il siro-cattolico Robert, tour operator ad Aleppo.

Limbo siriano

Nella massa di iracheni tracimata in Siria i cristiani – caldei, siri, armeni, ortodossi – sono almeno quarantamila. La “nazione-canaglia”, da sempre nel mirino dell’amministrazione Usa, per loro è una specie di terra promessa, il posto migliore dove fuggire se sei uno che porta il nome di Cristo. Si concentrano nei quartieri damasceni di Giaramana, a Tabbaleh, a Massaken Barzi o a Dwela. «Quando ne arriva qualcuno nuovo, le famiglie salgono al santuario a ringraziare Iddio e la Madonna per il viaggio finito bene», racconta Toufic Eid, il parroco della chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Maalula, il villaggio rupestre dove ancora parlano l’aramaico, come Gesù. «Ma poi chiedono anche che sia resa facile la loro vita di rifugiati, che facile non è».

A Massaken Barzi, Samir e i suoi, come tutti, vivono ammassati in otto in due stanze, dormono sui divani e sui materassi per terra. Pareti piene di Madonne, Sacri Cuori, foto di giorni felici, comprese quelle di quando sua figlia Yasmina è stata liberata dopo il solito rapimento-lampo («undici giorni con le mani legate, è rimasta. E noi ad aspettarla, senza riuscire né a mangiare né a dormire…»). Mucchi di panni, nipotini che piangono, gabbiette di uccelli, valigie aperte, sempre pronte per essere riempite coi frammenti di vita scampati al naufragio. Bilocali malridotti che nel 2000 si affittavano a dieci dollari al mese, ora gli iracheni li pagano da quattrocento dollari in su. Con un effetto-Iraq sul mercato immobiliare che esaspera anche i siriani. «Mio figlio grande dall’Australia mi manda ogni mese i soldi per l’affitto», dice Samir. Barcamenarsi è la scelta obbligata. Il governo siriano assicura l’ospitalità, apre le scuole ai figli dei rifugiati, garantisce un minimo d’assistenza sanitaria a chi mostra i refugee certificates distribuiti dall’Onu. Ma l’economia del Paese è in sofferenza, e gli iracheni che non possono iniziare attività in proprio devono restar fuori dal mercato del lavoro. Così, la condizione di rifugiati trasforma la vita di tanti ragazzi e tanti uomini in una sala d’attesa. Come capita a Michel, che a Baghdad stava finendo gli esami d’ingegneria e adesso – come tanti suoi coetanei – passa il giorno stravaccato da un divano all’altro a ingozzarsi di idiozie televisive satellitari, che anche qui sanno arrivare nei tuguri più fatiscenti grazie alla fitta foresta di parabole che avvolge la città. Intanto, per tante donne – e magari sono giovani vedove piene di figli, che hanno seppellito i mariti prima di scappare – la fatica per tirare avanti diventa un piano inclinato che fa scivolare nella prostituzione. Mentre anche tra i bambini l’alta percentuale di defezioni dalla scuola (il 30 per cento secondo statistiche Onu 2006) nasconde un crescente fenomeno di sfruttamento del lavoro minorile. Se a questi elementi si aggiungono i casi sempre più frequenti di delinquenza che hanno avuto come protagonisti dei rifugiati iracheni, si capiscono anche i crescenti sintomi d’insofferenza e di allarme sociale registrati tra i siriani nei confronti dell’ingombrante immigrazione irachena post-Saddam.

Anche per questo, a metà febbraio, il governo siriano – lasciato da solo a fronteggiare un’emergenza umanitaria economicamente e politicamente destabilizzante – è sembrato sul punto di dare una stretta alla generosa ospitalità a cui lo spinge la sua ideologia panarabista. Si ventilava una drastica riduzione della durata dei permessi di soggiorno, con obbligo per tutti i rifugiati di lasciare la Siria per un lungo periodo di tempo prima di poterne richiedere un altro. Poi l’allarme è rientrato. Sono state rafforzate solo le misure di registrazione e di controllo dei rifugiati. Passata la paura, è tornata per tutti – cristiani compresi – la quotidiana irrequietezza di una vita sospesa.

C’è chi nella terra di nessuno dei rifugiati si muove con leggerezza, dispensando sorsate di carità e misericordia alla città di naufraghi nascosta nelle pieghe della città reale. Suor Thérèse del Buon Pastore ogni giorno fa il giro di Massaken Barzi, distribuisce rosari e stufette, minifrigoriferi e crocifissi, e poi ascolta – e soccorre, per quello che può, nella quasi totale latitanza di iniziative anche da parte degli organismi assistenziali ecclesiali – le pene di tutti. Soprattutto delle giovani madri rimaste vedove, che solo qui sono novanta sulle cinquecento famiglie da lei conosciute. A qualcuno dei sessanta bambini a cui fa catechismo ogni tanto deve pagare la giornata, quando per poterseli portare in gita o a giocare li sottrae per un giorno ai “lavori” da tre dollari a settimana che hanno rimediato presso barbieri e magazzini. Coi più grandi ha messo in piedi una specie di cooperativa. Si fanno chiamare “quelli di Domenico Savio”, bravi ragazzi allegri come il santo salesiano che organizzano lezioni d’inglese, corsi di computer e di maquillage. Tentando ogni giorno la scommessa di una vita “normale” nel presente, il piccolo miracolo di raccogliere quaderni ordinati di appunti da studiare anche dentro condizioni così fuori norma. Mentre quasi tutto, intorno a loro, racconta di un senso di vuoto e di vertigine che consuma giorni inutili.

Fine di una cristianità

«Gruppi iracheni cristiani hanno definito le politiche dell’amministrazione Bush in Iraq come una “perfida cospirazione”. È probabile che questa perfidia condurrà all’estinzione di una delle più antiche nazioni cristiane nel mondo nella sua stessa terra madre».
Così scriveva il politologo analista statunitense Glenn Chancy già nell’aprile 2004. A giudicare dai sogni e dai progetti dei rifugiati caldei in Siria, tale processo di estinzione si va realizzando a ritmi accelerati.

Secondo sondaggi dell’Onu realizzati nel marzo 2006 l’80 per cento dei fuoriusciti dall’Iraq non aveva alcuna intenzione di rientrare nel proprio Paese dilaniato. Una percentuale che di certo tra i profughi cristiani è ancora più alta, con buona pace di tutti i capi delle Chiese che dai loro pulpiti ripetono di non scappare. Robert, ad esempio, faceva anche lui il tassista a Baghdad. Mostra senza enfasi lo squarcio che una scheggia gli ha lasciato dietro al collo. Adesso lo fanno andare avanti poche certezze: che la sua sposa Rania è di nuovo incinta, che la madre e i fratelli di lei stanno nel Michigan e che loro faranno di tutto per raggiungerli. «Con l’Iraq», dice, «abbiamo chiuso. Basta. Finito. Se vogliamo vivere, dovremo vivere altrove. Prima le cose filavano liscie. Ma adesso, se sei cristiano, non sei più buono per vivere a Baghdad».

Non possono tornare in Iraq. Non possono iniziare a lavorare per rifarsi una vita in Siria. Ma gli rimangono sbarrate anche le porte di altri Paesi, soprattutto quelli occidentali, con le loro politiche sempre più blindate all’immigrazione. Che anche qui costringono i rifugiati iracheni a frustranti quanto inutili giri tra ambasciate e consolati, dove i funzionari traccheggiano, prendono tempo, trascinando le pratiche per la concessione dei visti di rinvio in rinvio.

Susan anche stamattina è stata all’ambasciata australiana. Un altro buco nell’acqua. Guarda coi suoi occhi dolenti di bambina suo figlio Semir, un ragazzone di 15 anni, primogenito di quattro figli, e racconta di suo marito, che adesso è tornato a Baghdad a rischiare la pelle per provare a vendere la casa, la macchina e tornare con un po’ di soldi. Più di qualche padre di famiglia non è più tornato da questi ultimi viaggi fatti con l’intenzione di chiudere i conti col passato. I nuovi “occupanti” delle case hanno tagliato sul nascere ogni contesa facendo fuori gli sgraditi proprietari e le loro “pretese”. Quanto stiano in pena lei e il suo ragazzo lo si intuisce dalle facce, e anche dal tono incalzante con cui ripete domande senza risposta: «Perché all’ambasciata non ci danno il visto? Quanto potrà durare tutto questo? Ma c’è ancora, da qualche parte, un futuro per noi?».