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19 marzo 2007

20 marzo 2003. Inferno in Iraq

Quattro anni fa non era per nulla facile telefonare in Iraq. Lo stato pietoso delle infrastrutture del paese rendeva difficile qualsiasi tipo di comunicazione e, nel caso si fosse stati tanto fortunati da prendere la linea, bisognava fare i conti con fruscii, eco, e la sua improvvisa scomparsa. Di telefoni cellulari e posta elettronica neanche a parlarne, a vietarli non era solo l’embargo economico in cui il paese viveva ormai da 13 anni, ma anche il regime che aveva tutto l’interesse a mantenere la propria popolazione senza alcun contatto con il mondo esterno e quindi in una situazione di “ignoranza indotta” delle dinamiche politiche che non fossero quelle che i media iracheni ripetevano ossessivamente da decenni.
Per questa ragione esattamente quattro anni fa a quest’ora mi chiedevo a che ora avrei dovuto iniziare a provare a chiamare Baghdad. All’una di notte ora italiana, le tre del mattino in Iraq, di quello che sarebbe stato il 20 marzo sarebbe scaduto l’ultimatum americano, e da allora in qualsiasi momento la guerra contro l’Iraq avrebbe potuto aver inizio. Calcolare i tempi quindi era di fondamentale importanza: volevo parlare ancora con Baghdad! Sapevo che non sarebbe servito a nulla, di essere solo una delle migliaia di persone che quella sera avrebbero fatto lo stesso tentativo, ma volevo farlo. Mi sembrava di poter in qualche modo far sentire ai miei amici la mia, seppur inutile, vicinanza in un momento così tragico. Perchè tragico il momento lo era. Proviamo ad immaginare. Come si può sentire una persona che sa che nel giro di un giorno, dieci ore, un’ora, un minuto solo, l’inferno diventerà il suo mondo? Cosa potevano provare quegli iracheni che avevano già vissuto altre guerre, che avevano provato sulla loro pelle il terrore del rumore delle bombe, dei razzi, delle urla e dei pianti? Che sensazione ha chi sa di poter morire da un momento all’altro o che in un attimo potrebbe perdere i suoi affetti più cari?
Che cosa avrei detto loro? Che parole avrei trovato? Per tutto il pomeriggio provai a pensarle componendo e scomponendo le frasi perchè troppo ottimiste, superficiali o, al contrario, troppo drammatiche e senza speranza. Non fu facile. Decisi così di affidarmi al senso del momento, mi convinsi che le parole mi sarebbero venute dal cuore e che certamente sarebbero state quelle giuste.
Così, una volta a casa, iniziai a provare.
Niente linea. Niente linea. Niente linea. Sì! Forse c’è. Ma no. Non ha agganciato l’internazionale. Un paio d’ore così e le mie speranze cominciarono a svanire. E cominciarono a venirmi in mente tutte le parole che avrei potuto - dovuto - dire nelle telefonate dei giorni precedenti. Il tempo passava e la mia ansia aumentava nella assurda convinzione che se non fossi riuscita a parlare con i miei amici avrebbero pensato che li avessi dimenticati, che mi fossi arresa all’inevitabile, che mentre loro erano lì terrorizzati ad attendere la morte io fossi stata occupata a guardare la TV, a chiacchierare con gli amici o addirittura a dormire.
A mezzanotte e mezza, le due e mezza del mattino a Baghdad, finalmente un rumore mi diede speranza. Trattenendo il fiato sentii l’aggancio della linea internazionale e poi, dopo qualche lunghissimo secondo di silenzio, il doppio tono che in Iraq segnalava la linea libera.
C’ero riuscita. Malgrado lontana una voce da Baghdad mi stava rispondendo. E le parole mi vennero dal cuore, così come ero sicura avrebbero fatto, e fu facile più di quanto mi aspettassi perchè, nonostante tutto, sapevo di aver fatto la cosa giusta. Lo sentii nelle parole e nella voce al di là del filo.
Nei giorni successivi riuscii ancora a telefonare, e poi ci fu lo straziante silenzio che durò fino all’inizio di maggio quando, per la prima volta, proprio la persona che avevo sentito quel 20 di marzo riuscì a chiamarmi ed a dirmi che erano tutti vivi.
Da quella notte sono passati quattro anni. I miei amici sono tutti vivi, qualcuno ha lasciato il paese, qualcun’altro da Baghdad è emigrato verso il più sicuro nord, ma grazie a Dio sono ancora tutti vivi.
E proprio in questi giorni uno di loro è venuto a trovarmi. La vita non è certo stata facile per lui. Per tre volte si è trovato vicinissimo a morire a causa delle bombe che a Baghdad esplodono ovunque e che fanno vittime soprattutto tra i civili innocenti. Porta ancora nel corpo una scheggia di metallo che ogni tanto gli crea problemi ed i segni del rapimento a fini di riscatto di cui è stato vittima. Segni tangibili per essere stato percosso a sangue e quelli intangibili ma più profondi di un’esperienza orribile.
Ma è vivo. Ed io sono felice per questo.
A lui ed a tutti i miei amici di Baghdad dedico la speranza che il ricordo di quella notte e di tutte le altre possa scomparire dalla loro memoria, e che il futuro sia migliore.

Baghdadhope